“La vita cerca legami. Storia di Francesco”

"La vita cerca legami. Storia di Francesco."
Il peso dei pensieri

“La vita cerca legami. Storia di Francesco.” un libro di Melita Cavallo

Ugo Mursia Editore, Milano 2021, pagg. 246

Dopo una luminosa carriera interamente dedicata alla Giustizia minorile, Melita Cavallo ha dato spazio ad una sua vena più squisitamente letteraria e si è dedicata da qualche tempo alla scrittura di libri che traggono spunto dall’incontro con quell’umanità che le è passata davanti nel corso degli anni. Nel 2016 compare in libreria Si fa presto a dire famiglia (per i tipi di Laterza) seguito da I segreti delle madri (Laterza 2017) e da Solo perché donna (Mursia 2019) cui si aggiunge oggi La vita cerca legami. Storia di Francesco (Mursia 2021, pagg. 246).

Puntualissima all’appuntamento con la pagina bianca, l’Autrice regala un’altra storia da assaporare: una vicenda autentica, che fa pensare, ricordare, fantasticare e, mentre coinvolge, come sempre, invita a riflettere, anche, forse, in accordo con una celebre frase di Hemingway: “la cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani”. Si può parlare di “letteratura militante”, nel senso indicato da Cvetan Todorov: “la letteratura, al di là dell’essere una piacevole distrazione riservata alle persone colte, permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”. Come dire una letteratura che vuole “conoscere per riferire” e si contraddistingue per il fatto che, attraverso quest’operazione, mentre traspone sulla pagina la trama di una storia “vera”, la scrittrice per prima si rimette ogni volta in gioco, nel rapporto con sé stessa e con i suoi lettori.

Quando Melita Cavallo lo incontra per la prima volta, Francesco è un uomo che ha più di quarant’anni e che, per vie più o meno misteriose, le si rivolge nella speranza di far luce su alcuni nodi irrisolti della sua vita, anche per trovare, restituire o conferire un possibile senso ad una serie di domande di vitale importanza che da sempre lo accompagnano, come lui stesso dice nella prefazione: “il peso dei pensieri che ti sovrastano la mente, e si ripercuotono sul tuo corpo, ti annienta; e a volte quei pensieri modificano noi stessi ed i nostri comportamenti, facendoci sentire spezzati dentro … e restano infiniti … ma tutto questo non deve fermarci nel vivere le opportunità che ci spettano e che la vita ci offre”.
In effetti, Francesco le si presenta con queste parole: “la mia nascita non è mai stata denunziata all’anagrafe di Roma fino al febbraio 1985, quando i Carabinieri … intervenuti sul ‘mio caso’ si resero conto che non avevo alcun documento, né quello d’identità, né quello sanitario, perché per l’anagrafe io non ero mai nato … avevo all’epoca dodici anni e mezzo; fino ad allora avevo vissuto trascinato da mia madre, senza una casa che fosse la mia; la strada era la mia casa; senza parenti e senza amici, senza scuola e senza libri, senza giochi, senza nulla … vorrei che lei scrivesse questa mia storia, perché spero che qualche lettore, pur dopo tanti anni, possa essere in grado di identificare luoghi o persone, e farsi vivo per consentirmi di ricostruire la vicenda della mia nascita. In particolare, potrebbe fare una qualche luce sulla figura di mio padre, a me totalmente ignota”.
In prima battuta viene in mente un ovvio richiamo al mito di Edipo alla ricerca del padre ma, a parere di Melita Cavallo, sembra che Francesco “sappia già” chi probabilmente possa essere colui che ha contribuito alla sua generazione – per così dire – “biologica” e soprattutto appare chiaro sin da subito che la sua è una “domanda di significato”, assai più profonda, che ruota intorno al tema del perché: perché Io sono e perché Io sono Io. Dunque una ricerca della possibilità di rendere “una testimonianza a quanti hanno avuto un vissuto simile al mio: un vissuto di verità negate come mai avvenute … di risposte che a volte non arrivano o non sono quelle che ci si aspetta, di ricerca delle proprie radici … un contributo a tutti coloro che sanno di essere figli nati e ceduti, e che si chiedono come sarebbe stato se…; un contributo anche a tutti quei genitori che quel figlio del «se…» lo hanno portato a casa e fatto loro. Per me non è stato così, non c’è stato un «se…», ma un «ma…» che ha segnato, non lo nego, l’intera mia esistenza; e – ci tengo a dirlo – forse doveva essere questo il mio «se…»”. 
Dopo averlo ascoltato, Melita accetta la sfida che la domanda di Francesco necessariamente comporta e da qui prende le mosse un percorso comune e condiviso, che passo dopo passo conduce alla stesura di questo libro.

 Come si capisce, Francesco non ha mai avuto una famiglia adottiva ma – dopo il riconoscimento giuridico, ancorché tardivo, della sua esistenza e della sua identità – è stato collocato in un istituto, da cui la sua vita ha poi preso la via del largo, realizzandosi attraverso la costruzione di nuovi legami, proprio perché, come recita il titolo della sua storia: la vita cerca legami.

E la vita gli ha riservato molte sorprese, che qui non è opportuno anticipare per non sottrarre al lettore il piacere di una lettura piena di veri e propri colpi di scena, che rasentano la categoria dell’incredibile, ancorché vero! Nell’avvincente succedersi dei circa venti capitoli che compongono il volume, entrano volta per volta sul palcoscenico nuovi personaggi, del tutto inattesi, che ricompongono e restituiscono un complesso scenario di straordinaria, tragica e meravigliosa intensità.

Al riparo dal rischio di pregiudicare l’effetto sorpresa della lettura, si può invece aggiungere che l’Autrice, nel ricomporre la vicenda di Francesco, ricorre all’espediente narrativo della trasposizione del racconto di altri, accostandosi in ciò all’idea di scrittura di Joseph Conrad, che riporta la storia dei suoi personaggi per come riferita, molti anni dopo gli avvenimenti, dalla “figura letteraria” di Charles Marlow, che ne è stato testimone. Le parole scritte diventano così il mezzo semplice ed efficace per trasmettere un insieme di voci che sanno imprimere nel lettore emozioni uniche: alla voce di Melita e Francesco si aggiungono mano a mano quelle dell’ostetrica Marisa, degli operatori dell’istituto, della prima insegnante, di Barbara, di Frida, di Mario, della madre, di una giudice onoraria…

Questa sorta di contrappunto tra voci consente inoltre all’Autrice – in continuità con quanto già sperimentato negli altri libri prima ricordati – di integrare la narrazione di una vicenda umana con inviti a riflettere su tematiche di fondo, che tale vicenda a vario titolo richiama. Tematiche di natura psicologica, sociale e culturale o più strettamente inerenti il diritto minorile, tra cui: il fenomeno del cosiddetto “mercato dei bambini”; la tendenza di gran parte della cittadinanza e talvolta persino degli operatori ad assecondare quella logica del quieto vivere che poggia sul diffuso egoismo del “non sono affari miei” (dimenticando che la condizione di qualsiasi minore “è affare di tutti”); la cronica difficoltà, nonostante lodevoli eccezioni, di reperire risorse familiari disponibili ad accogliere bambini o adolescenti “con problemi di salute”; il fatto che, in ambito giuridico, l’esigenza di recuperare il rapporto tra il figlio sofferente o maltrattato ed i genitori inadeguati entra non di rado in frizione, se non in contrasto, con l’esigenza di dichiarare uno stato di abbandono, che tronca il legame con la famiglia d’origine ma sottrae il minore al limbo di un’attesa spesso lunga e tale da pregiudicarne certamente il benessere; l’evoluzione normativa che solo nel 1997 (peraltro su impulso di una circolare di un Tribunale per i Minorenni risalente a cinque anni prima) ha introdotto un insieme di disposizioni dirette ad assicurare la tempestiva denuncia, al momento della nascita, di ogni neonato all’Ufficiale di stato civile competente, impedendo che casi come quello di Francesco (mancata denuncia della nascita) possano ancora verificarsi; il recente riconoscimento del diritto per gli adottati di conoscere le proprie origini, attraverso uno specifico ufficio istituito presso i Tribunali per i Minorenni.

A margine e sullo sfondo della vicenda di Francesco, Melita Cavallo esorta ad una riflessione riassuntiva sul concetto di resilienza, che lei stessa propone quale principale chiave di lettura della storia narrata: “la resilienza non è la panacea universale contro la l’emarginazione, ma è certamente un utile criterio di lavoro per i servizi che operano sul territorio, nella misura in cui siano in grado di individuare nella persona del soggetto minorenne, nella famiglia allargata, nella scuola, nel gruppo, nel quartiere le risorse di difesa e costruzione. Spesso la resilienza esiste a livello latente, e poi, con modalità diverse, a seconda della storia di ognuno, emerge in un processo attivo di resistenza alla distruzione e di costruzione di una vita contro tutti e contro tutto … la valorizzazione della rete informale delle relazioni umane intorno al bambino, alle quali egli si aggrappa nei momenti di difficoltà, coinvolge tutti: la famiglia allargata, ove esistente, la scuola, ove funzionante, il quartiere, ove socialmente attento”. E di tutto ciò la vicenda di Francesco costituisce senza dubbio un esempio, diversamente da quanto accaduto nel caso di sua madre, che si chiama Adina, e che pure costituisce motivo di interesse per le questioni di cui si occupa questo numero di Dromo. A Francesco, Adina “ha inflitto l’abbandono più estremo, perché lo ha tenuto per un tempo infinito e insostenibile nel più assoluto vuoto affettivo, educativo e assistenziale, legandolo con una catena invisibile alla sua sciagurata esistenza di girovaga, di persona senza fissa dimora e senza relazioni familiari o amicali, addirittura condannandolo, per oltre dodici anni, alla inesistenza sociale per non averlo mai dichiarato alla nascita come suo figlio”. Molte zone d’ombra permangono nella ricostruzione della storia di questa donna, che “scappa di casa” nei primi anni Cinquanta del Novecento per recarsi a Roma e, dopo il fallimento del legame sentimentale per il quale si era allontanata dalla famiglia, senza dare più notizie di sé, “va a servizio” a casa di “persone benestanti” e, in maniera misteriosa, scivola nel disagio e nella marginalità. I genitori vengono avvertiti nel 1985 del suo arresto e della sua – ancorché breve – restrizione in carcere, per il grave reato di soppressione dello stato civile di un neonato. Adina è dunque rimasta per moltissimi anni smarrita, da sola e insieme al figlio, nel labirinto delle vite marginali ed è solo in virtù della risposta giudiziaria – conseguente alla sua quasi casuale “intercettazione” – che nella sua vicenda compare per la prima volta l’intervento di un operatore sociale – appartenente peraltro al settore del volontariato – che la assiste con una certa continuità negli iter necessari all’accesso ai benefici (dal sussidio economico alla sistemazione alloggiativa) ed all’assistenza socio-sanitaria. Come dire che, paradossalmente, nella sua vita la prima risposta in termini di welfare le è stata fornita dal contatto col sistema penale! Nel 2000 deve lasciare per morosità l’abitazione in affitto, per trovare ospitalità presso una casa famiglia per persone con disagio mentale, dove riesce ad intraprendere un percorso di recupero. Si trasferisce poi in provincia, riuscendo a condurre una vita autonoma, grazie all’attento e fattivo monitoraggio del servizio sociale, seppur si renda necessaria una breve ospedalizzazione per TSO, che tuttavia consente la presa in carico da parte della psichiatria territoriale, con conseguente conseguimento di una certa serenità ed equilibrio. Nel 2015 viene colpita da un accidente cerebrovascolare e, dopo un breve rientro a casa con assistenza domiciliare, si rende opportuno l’ingresso in una casa di riposo, di cui riesce a sostenere la retta grazie alla pensione sociale, giungendo infine a condurre una vita serena, circondata da attenzione e cure personalizzate: “in questo nuovo ambiente Adina sembra rinascere, uscendo da un isolamento pluridecennale: recupera una nuova dimensione di vita, acquisisce capacità di relazione … l’ingresso nell’attuale struttura assistenziale ha segnato per lei l’inizio di un percorso di socializzazione non effimero … di tanto in tanto riceve visite …”.

Il nuovo numero della rivista, aperta alle migliori collaborazioni di settore e in rapporto costante con i vari Ordini professionali della cura, si intitola “La rivoluzione stanca” ed è dedicata alla salute mentale con i contributi di Marco D’Alema, Nerina Dirindin e molti altri professionisti. 

Il numero, sarà disponibile in free download sul sito della rivista, www.dromorivista.it.