“Fratelli da odiare”[1]

di Raffaele Bracalenti

Mi è capitato negli ultimi mesi di imbattermi in un genere di saggi che, da un po’ di tempo, non avevo occasione di leggere: quello, di Edgar Morin[2], lezioni del Coronavirus, e un volume di Cappelletty e Màdera sul caos[3] fanno parte di questo piccolo gruppo. È questo un genere di libri che si propone, in qualche modo, di restituire con angoscia e preoccupazione, la realtà nella quale viviamo, ma che, al contempo, non rinuncia a lanciare un messaggio di speranza, ad offrire al lettore la fiducia e la convinzione che qualcosa può essere fatto e che in ognuno di noi, o forse in coloro che reggono le sorti del mondo, vi sia ancora la capacità di credere che la storia sia magistra vitae, e che le analisi lucide e puntuali possano, in qualche modo, servire da bussola, possano essere apprese e consentire un cambiamento di rotta.

Forse l’effetto della pandemia è stato anche questo: quello di precipitarci in un tempo straniato, marcato da un senso di possibile fine incombente. Credo che qualche cosa di simile accadde nel 1961, il riferimento è chiaramente alla Baia dei Porci, quando il pianeta si trovò ad un passo da una guerra nucleare, sperimentando la sensazione che il mondo fosse giunto al liminare e si stesse incamminando verso un esito tragico e inevitabile. Ricordiamo, poi, come quel momento costituì una vera e propria esperienza traumatica che segnò, potremmo dire in maniera indelebile, la vita di un gran numero di persone e tra questi molti intellettuali anche italiani tra cui, credo, si annoverasse Moravia, che rimasero quasi ossessionati dall’incubo nucleare. Forse è un caso, o forse no, ma la pandemia giunge in un momento di grande e rinnovata consapevolezza delle condizioni miserevoli del nostro pianeta, tanto che la stessa pandemia è letta come un possibile esito, destinata a ripetersi, dei processi di una globalizzazione estrema[4].
Ma giunge anche dopo l’incredibile epopea di Greta Thumberg, la quale non solo è stata una vox peraltro non clamante nel deserto – al contrario capace di risvegliare paure, ma anche speranze in tante persone – ma è persino giunta a dare lezione ai grandi che, almeno nelle forme esteriori, sembrano, in larga parte, aver ascoltato la lezione.
E così, mi è parso, la potenza di Greta è come se avesse fatto fare un click nelle nostre menti, restituendoci la speranza che sia possibile farsi ascoltare dai grandi della terra e cambiare il corso della storia. È possibile trovare un senso nella storia e trovare gli strumenti politici e intellettuali per cambiare il mondo. Grande, bellissima, utopia.

La tenuta dei sistemi sociali, economici, culturali a cui fa riferimento il nostro vivere comunitario, sembra minacciata da scosse profonde che annunciano una crisi che appare irreversibile. Alla paura che questa crisi genera, l’uomo tende a risponde attivando un meccanismo arcaico che è quello del capro espiatorio, dell’odio nei confronti dei diversi, da cui derivano i processi di inferiorizzazione e di razzializzazione: meccanismi ripercorsi nella storia della sociologia e dell’antropologia ma che formano parte dei pattern comportamentali della specie umana. Ci insegna l’etologia che solo l’uomo è in grado di muovere con tanta rapidità da sentimenti di fratellanza e altruismo così potenti all’estremo opposto, estremo che spazia dall’assoluta indifferenza al male dell’altro sino ad una capacità di fare male che non ha eguali nelle specie animali.

Forse è noto ai più che la scoperta dei neuroni specchio ha cercato di gettare luce sui meccanismi di identificazione e quindi di condivisione empatica dei sentimenti dell’altro, ponendo, diciamo così, le basi neurofisiologiche della capacità di comprendere lo stato interiore, la condizione dell’altro quale base della socialità. Già precedentemente, prima Spitz[5] e poi Stern – cui si deve questa bellissima frase: “Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle[6]” – hanno studiato la comunicazione tra madre o caregiver e bambino, e di come attraverso il coordinamento oculare o la corrispondenza tra emozioni e mimica facciale, il bambino entri in risonanza con l’altro, in questo caso la persona adulta, e questa capacità costituisca la base per uno sviluppo armonico e socialmente orientato. E tuttavia, si diceva, l’essere umano è anche in grado di una assoluta mancanza di empatia, di rimanere indifferente al dolore dell’altro, come accade, nell’individuo, nelle cosiddette personalità sociopatiche, o nei gruppi in alcune, purtroppo molte situazioni. Come sottolinea, Romano Màdera, filosofo e psicoanalista junghiano, sempre gli etologi hanno cercato di portare un contributo che parte dalla considerazione che l’essere umano è l’unico animale che riesce a uccidere con relativa semplicità esseri della propria specie, mentre negli altri mammiferi tali forme di violenza sono limitate a determinate situazioni o avvengono solo verso specie diverse. Per spiegare quindi il comportamento dell’essere umano sono giunti a parlare di pseudo-speciazione, ovvero di un meccanismo che consenta di superare la lezione appresa attraverso i neuroni specchio o i processi di apprendimento della socialità nella lunga fase neotenica dell’uomo. Ovvero di considerare l’altro come non umano, appartenere ad un’altra specie[7]. Tale condizionamento avviene attraverso la “mostrificazione” ossia la trasformazione della percezione dell’altro in qualcosa di estraneo così minaccioso e svalutato da poterlo sopprimere, producendo così una sorta di moral injury che riguarda tanto le vittime quanto il carnefice. Quello che Màdera descrive come processo di mostrificazione dell’altro[8], trova, a mio parere una sua meravigliosa descrizione nel “La Metamorfosi” di Kafka, in cui il giovane Gregor Samsa diviene, in effetti, un non umano, uno scarafaggio che può essere eliminato, come accade in tanti processi sociali purtroppo ben noti. Il percorso proposto da Romano Màdera è certamente affascinante e capace di descrivere molti fenomeni sociali a noi noti, e tuttavia mi pare non riesca a cogliere tutte le sfumature attraverso cui il male si insinua nelle vene e nelle menti delle persone. Sartre diceva, il male sono gli altri, ma in questo caso parlava dell’altro a noi vicino. Schopenhauer raccontava la famosa storia dei porcospini, che avendo freddo s’avvicinano l’uno all’altro, ma così vicini da ferirsi con i loro aculei, e questo li obbliga ad allontanarsi fino a quando il freddo li costringerà riavvicinarsi: splendida metafora della difficoltà dell’essere umano a stare nella socialità.
Sandro Gindro, lo psicoanalista con cui mi sono formato, riteneva che la xenofobia originasse dai primi moti ostili nei confronti del nuovo arrivato, ovvero del fratello o sorella cadetta, nella famiglia. Non è soltanto in gioco l’egoismo del piccolo dell’uomo e il suo smisurato bisogni di amore e protezione, che lo rende intollerante a qualsiasi distrazione del caregiver, è in gioco qui anche, per Gindro, l’insofferenza per ciò che ci è simile, che produce spavento più e oltre che la diversità[9]. Qualcuno, non sbagliando, potrebbe trovarsi un rimando al perturbante freudiano. Come a dire che talvolta è insopportabile ciò che di nostro troviamo nell’altro, una sorta di straniero interno di cui parla Julia Kristeva[10]. Mi piace, o forse dovrei dire mi spiace ricordare, come la mitologia greca ci racconti che la vita delle famiglie sia una sorta di gara tra chi sia più rapido a uccidere l’altro tra genitori e figli. Anche l’antropologia freudiana di “Totem e tabù” non può sfuggire dal descrivere una ostilità vorrei dire primigenia e interna anche al gruppo originario, nel quale si scontrano un padre tiranno e spietato e l’orda dei figli invidiosi e assassini. Tornerà, la figura paterna, come legge o tabù per provare a contenere la pleonaxía di cui parlavano i greci, ovvero l’umana cupidigia, ma sappiamo che la battaglia, almeno per ora, è perduta. Proprio il termine pleonaxía sembra racchiudere il senso di questa cupidigia senza misura e senza desiderio, che l’uomo attiva per imporsi sui propri simili e per salvarsi da loro[11].

Detto questo, forse per l’atmosfera di straniamento che ci pervade tutti, forse per la voce di Greta Thumberg, capace, come si diceva, di risvegliare paure e insieme speranze, possiamo credere che l’uomo non sia regredito con l’evoluzione delle società, che sia capace di contenere l’istinto alla pleonaxia, di vedere il proprio nel bene altrui, di elevarsi dalle passioni tristi, per riprendere quell’avventura inaudita che, come scrive Morin nelle sue le lezioni sul coronavirus, è la storia dell’umanità:
«Essa ha in sé ignoranza, ignoto, mistero, follia nella sua ragione, ragione nella sua follia, inconscio nella sua coscienza, e ciascuno ha in sé l’ignoranza, l’ignoto, il mistero, la follia, la ragione dell’avventura. Noi partecipiamo a questo insondabile, a questo incompiuto così fortemente intessuto di sogni, di dolore, di gioia e d’incertezza, che è in noi come noi siamo in esso…» [12].

Note:

[1] Il titolo di questo articolo fa riferimento al saggio curato da Sandro Gindro, fondatore dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, che nel 1993 insieme ad altri studiosi dei fenomeni razziali e dei flussi di immigrazione tentava di fornire risposte su comportamenti, come la xenofobia e il razzismo, che apparivano al contempo “naturali” meccanismi di difesa e insensate manifestazioni di distruttività.

Cfr. S. GINDRO (a cura di), La xenofobia. Fratelli da odiare?, Alfredo Guida Editore, 1993.

2] E. MORIN, Cambiamo strada, le 15 lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina Editore, 2020

3] G. Cappelletty e R. Màdera, Il caos del mondo e il caos degli affetti, Claudiana, 2020.

4] È del 2012 il saggio dello scrittore e divulgatore scientifico statunitense David Quammen dal titolo Spillover. L’evoluzione delle pandemie, che approfondiva il tema del rischio pandemico trattando dell’evoluzione di alcuni dei maggiori patogeni che hanno interessato la specie umana in seguito a un salto di specie (spillover) e di patogeni dormienti o conosciuti solo in parte che potrebbero essere la causa di future pandemie. L’autore individuava nella deforestazione e la distruzione di habitat naturali, nell’inquinamento, nel sovra-popolamento, negli allevamenti intensivi, le attività umane che favoriscono la diffusione delle zoonosi e nella possibilità di spostamenti aerei sempre più rapidi ed economici la possibilità che si perdesse il controllo della loro diffusione a livello planetario.
Per un approfondimento si veda: D. QUAMMEN, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, 2012.

[5] R. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, Giunti-Barbera, Firenze, 1972, pagg. 29-31.

[6] D.N. Stern, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2005, p.64.

[7] R. Màdera, filosofo e psicoanalista junghiano, accompagnando il lettore attraverso un possibile campo transdisciplinare che colleghi gli apporti delle scienze biologiche, dell’etologia e delle neuroscienze alle scienze sociali e umane, alla psicologia e alla dimensione etica e politica per una riflessione sulla psicologia delle masse, e partendo dalla pseudo speciazione, ripropone il tema del “capro espiatorio” come condizionamento dei comportamenti collettivi alla base del superamento metodico delle inibizioni che limitano a certe situazioni o proibiscono del tutto di distruggere membri della stessa specie tra mammiferi.

  1. MÀDERA, Dalla pseudospeciazione al capro espiatorio, saggio disponibile online sul sito di Massenpsychologie, https://www.massenpsychologie.com/2021/03/10/dalla-pseudospeciazione-al-capro-espiatorio.

[8] U. Curi, Il colore dell’inferno, la pena tra vendetta e giustizia, Bollati Boringhieri, 2019, p. 72.

[9] Perché, a ben guardare, “le diversità appaiono meno marcate delle somiglianze” in S. Gindro (a cura di), La xenofobia. Fratelli da odiare?, Alfredo Guida Editore, 1993, pag. 95

[10] J. KRISTEVA, Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità, Saggi. Storia e scienze sociali, Nuova edizione, 2014.

[11] La più ampia trattazione della pleonaxia la troviamo nel I e nel II Libro della Repubblica di Platone. È affidata a Glaucone e Trasimaco, due dei personaggi che dialogano con Socrate intorno al tema della giustizia e del suo contrario. L’ingiustizia è l’esito di comportamenti dettati dell’istinto alla sopraffazione, pleonaxia appunto, per la ricerca dell’utile personale. Il sostantivo pleonaxía non è in realtà di facile traduzione. Allude evidentemente a un échein, un “avere” dunque, pléon “di più”. “Soverchiante supremazia”, “capacità di assicurarsi tutti i vantaggi a danno degli altri”, “chi sa imporsi sugli altri” sono alcune delle traduzioni proposte di un’espressione che resta in larga misura adeguatamente comprensibile solo se riferita a un preciso contesto.
Il termine è ampiamente diffuso nel linguaggio politico del v secolo a.C., e ricorre ne “La guerra del Peloponneso” di Tucidide dove l’autore scrive: «ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαφὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠφέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει».
«a me basterà il fatto che ritengano utile la mia opera quanti vorranno vedere con precisione i fatti passati e orientarsi un domani di fronte agli eventi, quando stiano per verificarsi, uguali o simili, in ragione della natura umana»

Quella natura umana che opera e agisce, mossa da tre istinti principali quali philotimia (desiderio di onore), pleonexia (avidità) e phobos (paura). Traduzione di L. CANFORA, Tucidide, La guerra del Peloponneso, Torino 1996.

[12] E. Morin, Cambiamo strada, le 15 lezioni del Coronavirus, Raffaello Cortina Editore, 2020, p. 121