La radicalizzazione giovanile nello sport

Introduzione

La radicalizzazione giovanile legata a fattori religiosi, politici, sociali, rappresenta in Italia e in tutta l’Unione Europea una sfida sempre più complessa, rispetto alla quale occorre dotarsi di conoscenze e competenze nuove. Questo paper è volto a dare conto del fenomeno della radicalizzazione giovanile nell’ambito sportivo, in particolare per quanto concerne la relazione educativa che si instaura tra gli allenatori e i giovani. Le realtà sportive si trovano infatti in una posizione strategica nella lotta e nella prevenzione di tale fenomeno: lo sport rappresenta un’area prioritaria di socializzazione informale per una vasta maggioranza di giovani in tutta Europa e dunque, come molti documenti comunitari riconoscono, un contesto ideale per mettere a punto un’adeguata strategia di intervento preventivo, incentrata sulla promozione di una cultura del rispetto dell’avversario, del fair-play, della convivenza, della pace. L’ambito sportivo può essere inoltre un “osservatorio” prezioso che permette di individuare i giovani a rischio o con tendenze radicalizzate attraverso il monitoraggio di comportamenti (fisicamente o verbalmente) violenti. Allo stesso tempo, in assenza di un’adeguata consapevolezza del proprio ruolo educativo, gli allenatori rischiano di veicolare essi stessi atteggiamenti e comportamenti violenti che possono sfociare nella radicalizzazione attraverso l’insegnamento della disciplina sportiva.

Il presente paper nasce inoltre dalla volontà di arricchire il quadro teorico di riferimento del progetto Safe Zone[1], finanziato dalla Commissione Europea e coordinato dall’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali (IPRS) in collaborazione con altri partner europei. Tale progetto, della durata complessiva di 24 mesi è volto a contribuire alla prevenzione della radicalizzazione e della violenza estremista in Europa, in particolare tra i giovani che svolgono attività sportiva. Esso si ispira al lavoro svolto all’interno del progetto MATES – Multi-Agency Training Exit Strategies for Radicalized Youth[2], anch’esso coordinato dall’IPRS e che, in conformità con la “strategia dell’UE per combattere la radicalizzazione e il reclutamento di terroristi” (Consiglio UE, 19 maggio 2014) e la guida OSCE 2014 (“Prevenzione del terrorismo e contrasto all’estremismo violento e alla radicalizzazione che conduce al terrorismo: un approccio comunitario”), aveva l’obiettivo di favorire l’attuazione di adeguate strategie di reintegrazione sociale per i giovani in probation (exit strategies) e di realizzare efficaci programmi di de-sensibilizzazione alla radicalizzazione violenta.

In primis, dunque, si tenterà di dare una definizione del concetto di “radicalizzazione”, che risulta tanto “inflazionato” quanto confuso sia nel discorso pubblico e che nella letteratura. In secondo luogo, si darà conto dei “fattori di rischio”, identificati dalla letteratura accademica, che possono indurre un giovane ad intraprendere un percorso di radicalizzazione che sfocia nella violenza e nell’estremismo. In questo senso è risultato prezioso il “modello ecologico” proposto da Bronfenbrenner (2009), in grado di restituire la complessità del fenomeno integrando diversi livelli di analisi. Infine, si proporrà una riflessione sul ruolo dello sport rispetto alla radicalizzazione giovanile, dando conto tanto delle potenzialità in termini educativi e preventivi, quanto del rischio che esso stesso veicoli forme di violenza.

 

La radicalizzazione: un concetto fluido

Negli ultimi anni la radicalizzazione giovanile e l’uso della violenza a essa associato sono diventati una preoccupazione crescente in Europa a causa del notevole aumento dei fenomeni di hate speech, della violenza di stampo xenofobo, nonché dell’incremento dell’estremismo religioso. Si tratta di un tema che ha assunto un rilievo significativo all’interno dei discorsi politici, giuridici e mediatici nelle società democratiche, ma anche in un sempre più nutrito corpus di letteratura accademica volta a comprendere come individui e gruppi di persone possano passare da convinzioni politiche, socioculturali o religiose “conformiste” a visioni e azioni estremiste o “radicalizzate” (Silva 2017). In questa direzione si sviluppano anche i discorsi politici e mediatici sulla radicalizzazione, volti a comprendere le cause di tale fenomeno per formulare politiche di prevenzione efficaci. La rilevanza che la radicalizzazione assume nel dibattito pubblico e accademico non si riflette tuttavia in una altrettanto approfondita analisi del concetto stesso nei termini della sua capacità definitoria ed esplicativa. Esso rimane un costrutto fluido e dinamico che comprende molti significati sociali, politici e religiosi, nonché una grande eterogeneità di fenomeni le cui cause non possono essere considerate come univoche e comparabili.

La difficoltà definitoria emerge, ad esempio, qualora si consideri la radicalizzazione in termini giuridici. Partendo dal presupposto che la definizione stessa di “radicalizzazione” e il contenuto delle azioni a essa associate dipendono dalle specifiche condizioni culturali e storiche di un determinato contesto, è pur sempre lo Stato (e, in generale, qualsiasi istituzione che detenga il potere all’interno della società) a determinare cosa è o non è “radicalizzazione”[3]. Davydov (2015) propone una definizione della radicalizzazione come interruzione e sovvertimento di quello che Max Weber ha definito “il monopolio dello Stato sulla violenza”. Da questo punto di vista, il confine tra ciò che è considerato accettabile e ciò che è invece sanzionabile è marcato dall’uso della violenza, dimensione che tuttavia, a livello giuridico, va considerata in maniera differente qualora essa si manifesti verbalmente o attraverso un’azione intrapresa ai danni di qualcuno. La sfida che le democrazie occidentali incontrano in merito al fenomeno degli haters riflette bene la difficoltà di definire delle misure sanzionatorie per disincentivare la diffusione della violenza verbale online, soprattutto alla luce del fatto che tali misure rischierebbero di ledere il diritto fondamentale dell’individuo di esprimere il proprio pensiero.

Se invece si considera la radicalizzazione da un punto di vista psicologico, “l’imbarazzo definitorio” che ne deriva è ancora maggiore. Al fine di comprendere tale fenomeno, molti sono stati i tentativi di configurare “profili” o “cause alla radice”, talvolta veri e propri tratti di personalità o aspetti patologici, in grado di influire sulla genesi di atteggiamenti radicalizzati. Basti pensare al lavoro di profilatura che non solo la letteratura accademica, ma anche gli organi governativi internazionali hanno promosso per comprendere e arginare il fenomeno dell’estremismo jihadista. Nonostante tali profili tengano conto sia dell’aspetto psicologico che di quello sociologico (il riferimento è soprattutto alla marginalità socioculturale come possibile “agente” di radicalizzazione), molte critiche sono state rivolte a questo tipo di approccio, evidenziando quanto questi profili non rispecchino la reale complessità del fenomeno, rischiando alle volte di restituire un’analisi parziale e pericolosamente deterministica. A ciò si aggiunge l’equazione tra radicalizzazione ed estremismo jihadista che si riscontra nella letteratura accademica e nei documenti prodotti dagli organi internazionali, che oltre a creare un’ulteriore confusione definitoria, contribuisce a restituire una comprensione limitata del fenomeno. Come suggerisce Horgan (2008) la radicalizzazione è un fenomeno che deve essere analizzato secondo un approccio interdisciplinare, all’interno del quale gli studiosi dovrebbero iniziare a pensare in termini di “percorsi” invece che di “profili” e “cause alla radice”. Allontanandosi da una spiegazione in termini esclusivamente psicologici individuali, sarebbe così possibile comprendere il processo di radicalizzazione ed i meccanismi socio-cognitivi che conducono a compiere azioni violente nel contesto contemporaneo.

Al fine, dunque, di definirne il concetto, si è deciso, in primis, di operare una distinzione tra radicalizzazione in generale e radicalizzazione che sfocia nella violenza (fisica, verbale o simbolica). Quest’ultima è infatti la tipologia di radicalizzazione che verrà presa in esame, poiché l’uso della violenza implica una violazione dei diritti umani e un attacco ai valori democratici della società e, di conseguenza, marca un confine netto tra ciò che è accettabile e ciò che invece è condannabile. Questa distinzione è fondamentale in quanto sottolinea l’importanza del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici e pone le basi per un’azione efficace.

In secondo luogo, si è voluto chiarire la differenza tra radicalizzazione ed estremismo, termini spesso usati come sinonimi in letteratura. Il termine estremismo[4] deriva dal termine latino “extremus” e il suo significato è “la posizione più lontana” o “più esterna”. In questo senso, l’estremismo è un atteggiamento o una pratica volta a eliminare il sistema politico, sociale o religioso esistente per sostituirlo con uno alternativo. Al contrario, il termine “radicale” ha la sua origine nella parola latina “radix”, che significa “radice”. La radicalizzazione è quindi un processo che “va alla radice”. Da un punto di vista epistemologico, significa “ancorarsi nella conoscenza, nelle opinioni, nei valori e nelle convinzioni per definire e orientare il proprio comportamento” (Alava et. Al. cit. in Šiňanská et al. 2019: 239). In accordo con Khosrokhavar (2014), invece di utilizzarli come sinonimi, possiamo definire la radicalizzazione come il processo attraverso il quale un individuo si avvicina a un gruppo o ad una posizione ideologica estremista di contenuto sociale, religioso o politico che mina l’ordine politico, sociale o culturale stabilito.

In linea con questa interpretazione si pone anche l’Unione Europea[5], che definisce la radicalizzazione come un processo di crescente disponibilità ad accettare, perseguire e sostenere cambiamenti di vasta portata nella società in conflitto con l’ordine esistente. La radicalizzazione che porta all’estremismo violento è definita come un processo in base al quale una persona accetta l’uso della violenza per raggiungere obiettivi politici, ideologici o religiosi.

Poiché ogni percorso è diverso e influenzato da molteplici fattori, la radicalizzazione non deve essere considerata in quanto “prodotto di una singola decisione, ma come risultato finale di un processo dialettico che spinge progressivamente un individuo verso un impegno volto alla violenza nel tempo” (Borum 2011: 15). La rilevanza della dimensione processuale è centrale anche nella definizione proposta dal Centre for the Prevention of Radicalization Leading to Violence (Canada), ovvero come

“Processo in base al quale le persone adottano un sistema di credenze estremiste – inclusa l’intenzione di usare, incoraggiare o facilitare la violenza – al fine di promuovere un’ideologia, un progetto politico o una causa come mezzo di trasformazione sociale” (Centre for the Prevention of Radicalizaztion Leading to Violence 2016). In quanto processo, la radicalizzazione che porta alla violenza implicherebbe:

  1. l’adozione di un’ideologia il cui contenuto definisce un quadro per un’azione significativa per l’individuo;
  2. la scelta di usare mezzi violenti per promuovere una causa;
  3. la fusione tra ideologia e azione violenta. Senza alcuna pretesa di fornire una definizione assoluta della radicalizzazione violenta, essa è preziosa in quanto, da una parte, sottolinea la natura processuale di tale fenomeno e, dall’altra, è abbastanza ampia da comprendere al suo interno tutte le sue diverse forme e manifestazioni.

Un altro aspetto significativo è stato messo in luce dal Consiglio d’Europa (2015), che ha posto l’accento sul reclutamento individuale o collettivo all’interno di gruppi estremisti o terroristici violenti. Diversi studiosi hanno evidenziato quanto all’interno del processo di radicalizzazione la dimensione gruppale sia persino più rilevante del contenuto del messaggio ideologico (politico, sociale o religioso che sia) veicolato dal gruppo stesso: l’ideologia radicale, afferma Reitman (2013), svolge in primis il ruolo di strumento che consente all’individuo di proiettare la colpa della propria sofferenza interna sulla società che lo circonda. Il gruppo, di conseguenza, si fa portavoce dell’ideologia, fornendo al soggetto il proprio consenso e supporto rispetto all’adozione di visioni e comportamenti estremi, nonché un senso di appartenenza. Restituendo un ruolo centrale al gruppo e alle strategie di reclutamento che esso adotta, il messaggio ideologico può essere analizzato nei termini di una narrazione: analizzando la narrazione attraverso cui si articolano i contenuti del messaggio ideologico estremista è possibile comprendere meglio il fascino che tale discorso esercita, soprattutto verso i giovani, nonché le tattiche utilizzate per indurli verso la radicalizzazione violenta.

 

La radicalizzazione giovanile: un fenomeno complesso

Una delle maggiori difficoltà incontrate dalle diverse agenzie educative che promuovono un lavoro di tipo preventivo rispetto alla radicalizzazione giovanile è l’assenza di una comprensione profonda, nelle diverse agenzie che si occupano di educazione, della natura del fenomeno della radicalizzazione giovanile e delle sue cause. Data la loro eterogeneità e complessità, è pressoché impossibile determinare con precisione tutti i fattori alla base dei processi di radicalizzazione, poiché ognuno di questi processi è unico e diverso. Tenendo presente ciò, è tuttavia possibile identificare alcune delle tendenze più comuni. L’International Centre for Prevention of Crime (2015) cita a questo proposito il “modello ecologico” proposto da Bronfenbrenner (2009), il quale ha messo in luce la complessità del fenomeno della radicalizzazione violenta integrando diversi livelli di analisi. È importante specificare che i fattori elencati di seguito non sono né spiegazioni esaustive né definitive per tutte le espressioni di radicalizzazione violenta. Va anche aggiunto che la presenza di alcuni o tutti i fattori non implica necessariamente che l’individuo in questione rischi più di altri di intraprendere un percorso di radicalizzazione violenta.

Modello ecologico di Bronfenbrenner (2009)

Sebbene l’individuo sia posto al centro del modello, vengono identificati diversi fattori “esterni” che a vari livelli influenzano il processo di radicalizzazione violenta della persona:

Livello individuale

Al primo livello troviamo i fattori individuali che possono contribuire all’identificazione di alcune tendenze più o meno ricorrenti quando si analizzano i profili di individui radicalizzati; questi sono, ad esempio, fattori che possono rendere una persona più vulnerabile o incline a determinate influenze. Tali fattori possono essere le circostanze socioeconomiche, la situazione lavorativa e il livello di istruzione, l’emarginazione o l’esclusione sociale percepita, la percezione dell’assenza di opportunità, fino a comprendere fattori quali la crisi individuale e identitaria, la ricerca di uno scopo, le proprie convinzioni e valori, l’età e il genere, un eventuale addestramento militare, i precedenti penali, la salute mentale e molto altro.

Sulla base dei dati esistenti, gli uomini sembrano mostrare una maggiore tendenza ad avvicinarsi alla radicalizzazione violenta rispetto alle donne. Inoltre, Bronfenbrenner afferma che i giovani risultano più sensibili a queste influenze, in particolar modo durante le fasi della crescita e dell’adolescenza, poiché sono più aperti e più sensibili alle varie “promesse e influenze”. Šiňanská et al. (2019) hanno messo in luce una serie di fattori, strettamente connessi alla peculiare fase di sviluppo dell’adolescenza, che possono portare i giovani verso tendenze radicalizzate. Le autrici partono dal presupposto che l’adolescenza è una fase della crescita caratterizzata da rapidi cambiamenti fisici, mentali, socioculturali e cognitivi, durante cui l’individuo si autodefinisce e opera dei cambiamenti nelle relazioni che intrattiene con le altre persone e istituzioni sociali. La costruzione dell’identità e della propria autonomia è una caratteristica significativa di questa fase dello sviluppo, che comporta “turbolenze” di non poco conto: la ricerca del proprio posto nel mondo e della propria indipendenza avviene infatti attraverso la separazione/opposizione rispetto ai caregiver primari, generando possibili sentimenti di perdita della fiducia in se stessi o negli adulti di riferimento, paura della solitudine e dell’abbandono. Questa dinamica conflittuale pone altresì all’adolescente il problema della gestione della violenza.

Inoltre, l’adolescenza è la fase dello sviluppo in cui si manifestano con maggior frequenza e intensità i comportamenti a rischio. Questo è dovuto, in parte, al fatto che l’adolescenza è caratterizzata dalla necessità di vivere esperienze eccitanti, di testare i propri limiti e di esporsi a situazioni potenzialmente pericolose, ciò che può indurre un giovane a farsi coinvolgere in attività distruttive come criminalità, abuso di droghe, estremismo politico o violenza (Bartlett, Birdwell e King 2010).

Livello relazionale

Il livello relazionale esplora i fattori legati alle relazioni più prossime (famiglia, gruppo dei pari). In questo senso, i fattori che possono contribuire alla radicalizzazione violenta sono: l’essere in contatto con dei coetanei e/o l’appartenenza a reti sociali che promuovono un pensiero radicalizzato; l’essere cresciuti in una famiglia autoritaria o non strutturata; il nutrire stereotipi rispetto ai ruoli di genere; il fatto di seguire leader carismatici (in ambito politico, sociale o religioso); l’assenza di relazioni costruttive con gli adulti. La ricerca “Young and Extreme”, commissionata dalla Swedish Agency for Youth and Civil Society, ha mostrato che i fattori relazionali, e in particolare la condivisione di determinati stereotipi all’interno di un gruppo, svolgono un ruolo significativo nello sviluppo di un comportamento radicalizzato e violento: in particolare, la discriminazione di genere è una fattore di cui tenere conto poiché può avere un ruolo di non poco conto nella costruzione della mascolinità e nello sviluppo della violenza all’interno dei gruppi estremisti.

Nel loro studio sulla radicalizzazione giovanile, Šiňanská et al. mettono in luce il ruolo preponderante che le relazioni sociali assumono durante l’adolescenza. In questa fase dello sviluppo l’individuo cerca la sua posizione nel mondo, si batte per emanciparsi dall’ambiente familiare e per l’indipendenza e, allo stesso tempo, necessita di identificarsi con un gruppo di pari. In questo senso, gli adolescenti con bisogni fragili o insoddisfatti possono intraprendere attività o comportamenti a rischio al fine di ottenere un riconoscimento da parte del gruppo dei pari o per difendere un’identità propria in opposizione a quella di coloro che “li rinnegano”. Naturalmente, come evidenzia Jaccard (2005), è importante anche comprendere se il giovane ha già un gruppo di amici coinvolti in attività e comportamenti a rischio: nella dimensione gruppale, il giovane può trovare più facile accettare le opinioni e le convinzioni dei membri più estremisti del gruppo, di conseguenza il comportamento a rischio può essere anche condizionato dal tentativo di ottenere o mantenere uno status sociale alto all’interno dello stesso. Inoltre, come ricorda Borum (2010), per i giovani che hanno sperimentato o percepito l’esclusione sociale, far parte di un gruppo radicalizzato rappresenta un’esperienza reale di inclusione sociale.

Livello meso-sistemico

Il livello meso-sistemico, o comunitario, tiene conto dei fattori istituzionali e comunitari, come: la presenza di comunità isolate che affrontano problemi di integrazione nella società; la presenza di una subcultura radicalizzata; l’uso delle differenze culturali come scusa per promuovere il conflitto sociale o politico.

Un fattore in grado di influire sui processi di radicalizzazione giovanile è l’ambiente scolastico. Arman (2007) ha messo in luce che determinate caratteristiche della scuola possono avere un impatto negativo sul giovane e contribuire a incrementare i comportamenti a rischio. In particolare, le basse aspettative negli studenti, regole e modelli di comportamento definiti in modo scorretto, la questione della sicurezza e della disciplina, la soddisfazione scolastica, il bullismo e la vittimizzazione, il coinvolgimento degli studenti in attività sportive ed extra-scolastiche ecc. sono fattori che possono influire sui processi di radicalizzazione. Ad esempio, gli studenti che non raggiungono i risultati d’apprendimento richiesti, e che spesso vengono per questo esclusi dalle attività extra-scolastiche, possono perdere sicurezza in se stessi e la motivazione per continuare a mettersi alla prova. Gli adolescenti che riportano scarsi risultati scolastici possono tentare di valorizzare la loro posizione in altre dimensioni della loro quotidianità in cui non si sentono inadeguati. Eccles et al. (1997) affermano che questi giovani rischiano più degli altri di adottare comportamenti a rischio (come fumare o bere alcolici), nel tentativo di compensare il feedback accademico negativo cercando il riconoscimento da parte del gruppo dei pari. In questo senso, la radicalizzazione può costituire una risposta efficace a questo genere di disagio.

Livello macro-sistemico

All’interno del livello macro-sistemico vengono prese in considerazione le influenze dei sistemi sociali (giustizia, istruzione), le azioni dello Stato e le variabili geopolitiche. A questo livello possiamo trovare fattori che non influenzano direttamente la vita delle persone, ma che piuttosto possono definire dei “modelli” di come dovrebbero essere strutturati i diversi contesti sociali. Anche i media rientrerebbero in questa categoria, a causa del modo in cui i messaggi da essi veicolati influenzano la società creando un contesto in cui gli individui agiscono. Da questo punto di vista, Arman prende in considerazione contesti sociali con determinate caratteristiche, come le società patriarcali dominate dagli uomini che valorizzano l’aggressività, la mancanza di integrazione sociale e il senso di alienazione dalla società, o ancora un’ideologia autoritaria che definisce come dovrebbe essere organizzata la società.

In riferimento alla nostra epoca non si può non considerare l’avvento di Internet, che ha drasticamente trasformato le nostre società: dal momento che Internet ha rivoluzionato le interazioni sociali e che il numero di giovani che dedicano una quantità di tempo considerevole ad attività online è in continuo aumento, “è importante prestare attenzione al lato oscuro del mondo virtuale” (Šiňanská et al. 2019: 241). Il cyberspazio è infatti sfruttato anche dai gruppi estremisti e terroristici, che usano tecnologie di informazione/comunicazione e i social media al fine di diffondere le loro ideologie. Attraverso l’uso di Internet tali gruppi possono diffondere la propria propaganda e ideologia in tutto il mondo, creando comunità internazionali attraverso siti web, blog, chat rooms, gruppi di discussione, videogiochi online e molto altro. La ragione principale per cui i gruppi estremisti puntano principalmente ai giovani è il fatto che questi ultimi passano più tempo online ed è più probabile che entrino in contatto con i materiali da loro diffusi.

Livello eso-sistemico

Infine, il livello eso-sistemico concerne la cultura e i valori che attraversano tutti gli altri livelli. L’eso-sistema è costituito dalle strutture sociali che modellano direttamente le comunità e le relazioni con cui l’individuo si confronta. A questo livello, un fattore determinante che può indurre alla radicalizzazione violenta è la presenza di istituzioni statali deboli o corrotte. In esso rientrano, ad esempio, l’assenza di democrazia e/o di libertà civili, forze di polizia illegittime o del tutto assenti, nonché le politiche discriminatorie statali o assistenziali. Nell’eso-sistema sono compresi anche i cambiamenti materiali che investono la società, come i flussi migratori o i conflitti armati.

A tutti questi livelli di influenza ci sono diversi spazi, contesti e situazioni che possono facilitare il processo di radicalizzazione che porta alla violenza. È importante sottolineare che i fattori finora identificati sono rappresentati come concentrici: si sovrappongono e si influenzano a vicenda. Pertanto, non possono essere analizzati separatamente, ma devono essere considerati come reciprocamente rafforzanti e interdipendenti.

 

Lo sport come strumento di prevenzione alla radicalizzazione giovanile

Se le traiettorie che possono portare un giovane verso la radicalizzazione violenta sono eterogenee, ancor di più lo sono le strategie adottate dalle associazioni europee che negli ultimi anni si sono attivate per prevenirla o per combatterla. Tra queste, un grande valore viene riconosciuto all’ambito sportivo per il suo significativo ruolo educativo e pedagogico.

Lo sport è in grado di trasmettere modelli di vita e pratiche di comportamento più o meno virtuose. Soprattutto per i più giovani, l’esperienza sportiva è un momento di formazione non solo motoria, ma anche psicologica affettiva/emozionale e relazionale, che contribuisce alla formazione della loro personalità. Daniel Tarschys, ex segretario generale del Consiglio d’Europa, ha dichiarato nel 1995 che

“Il lato nascosto dello sport sono anche le decine di migliaia di appassionati che trovano, nei centri sportivi dove praticano calcio, canottaggio, atletica o arrampicata, un luogo di incontro e di scambio, ma soprattutto un contesto in cui allenarsi alla vita comunitaria. In questo microcosmo, le persone imparano ad assumersi la responsabilità, a seguire le regole, ad accettarsi a vicenda, a cercare consenso, a praticare la democrazia. Da questo punto di vista, lo sport è per eccellenza la scuola ideale per la democrazia”.

Dalle ricerche condotte da Hall (2011), Moreau et al. (2014) e Spaaij (2014), è emerso che i giovani che partecipano a programmi sportivi provano forti sentimenti di responsabilità inter e intra gruppo, impegno e cameratismo, una maggiore fiducia interpersonale, la libertà di sfidare abitudini e confini sociali, nonché un rinnovato senso di appartenenza. Ciò è dovuto al fatto che questi ragazzi incorporano e vivono con emotività delle esperienze associate all’essere attivamente coinvolti in una competizione sportiva e parte di una squadra. Ad esempio, nello studio di Hall sulle esperienze degli adolescenti maschi che praticano sport di squadra, i partecipanti hanno riferito di “sentirsi bene” rispetto al fatto di “cooperare” e guadagnarsi il rispetto dei compagni di squadra nella gara. Tale studio ha inoltre messo in luce che, sviluppando l’autodisciplina attraverso l’attività fisica e l’allenamento, i ragazzi avevano un maggiore senso di controllo e una fiducia che trasferivano anche in altri contesti extra-sportivi.

Hall mette in luce un aspetto interessante rispetto ai “benefici” dello sport, ovvero il fatto che l’esperienza condivisa del rischio (di infortunio o di fallimento) funge da “forza trainante per la coesione sociale” promuovendo un forte senso di unità e appartenenza. Questo punto di vista è mitigato, tuttavia, dalla definizione che Hall stesso propone dello sport, concepito come una forma di “rischio da gestire” (“managed risk”), nel senso che sebbene i comportamenti rischiosi stessi siano forme “piacevoli” di apprendimento sociale per i giovani maschi, tali attività possono portare a esiti negativi qualora non vengano definiti chiaramente dei confini e delle regole solide rispetto alla condotta. Moreau et al. (2014) approfondiscono questo aspetto, sostenendo che il ruolo di allenatori e educatori è fondamentale nella misura in cui è loro responsabilità incoraggiare la costruzione di un’atmosfera di “fiducia, solidarietà e reciprocità” all’interno del gruppo al fine di creare sentimenti di “appartenenza e valore personale”. Inoltre, tali esperienze permettono di “dissipare le paure […] generando uno spirito di squadra vissuto come attento e protettivo dai membri del gruppo in relazione tra loro” (Moreau et al. 2014).

Alle conclusioni di Hall giunge anche Spaaij (2014), il quale inoltre riflette sulle potenzialità dell’attività sportiva per creare ciò che definisce il “capitale ponte” tra i partecipanti. L’autore porta come esempio la partecipazione dei giovani rifugiati e immigrati negli sport di squadra, i quali, praticando attività sportive con ragazzi di altri gruppi socioculturali, sviluppavano forti sentimenti di appartenenza attiva alla comunità. Secondo Spaaij all’interno del contesto sportivo si costruiscono confini fluidi e situazionali; in altre parole, è un luogo in cui anche i confini sociali vengono continuamente “spostati e attraversati”, mentre altri sono “creati e conservati” (2014: 6-7).

Infine, lo sport è un ambito che la tradizione sociologica ha sempre descritto come un insieme di attività ricreative in grado di fornire uno sbocco per l’aggressività, la rabbia e le tensioni represse. L’aggressività può infatti essere sfogata attraverso l’attività fisica o la tifoseria senza recare danno ad altri. Nel primo caso, l’attività sportiva permette di incanalare l’aggressività fisica in modo ordinato, ovvero secondo modalità regolate e dotate di confini stabili e, qualora vengano superati, sono previste delle sanzioni di vario tipo. Per quanto concerne invece l’ambito della tifoseria, un contesto esemplare in questo senso è lo stadio: si tratta infatti di uno spazio che permette agli spettatori di sfogare verbalmente (ad esempio, urlando slogan e intonando cori) la propria aggressività contro l’avversario sportivo. Si tratta dunque di un contesto in cui l’aggressività viene sì tollerata, ma a condizione che venga espressa all’interno di spazi e tempi socialmente ordinati. Russell così analizza lo status speciale di cui lo sport gode in relazione all’aggressività e alla violenza:

“Al di fuori del tempo di guerra, lo sport è forse l’unico scenario in cui gli atti di aggressione interpersonale non sono solo tollerati ma applauditi con entusiasmo da ampi segmenti della società. È interessante notare che se il caos del ring o del campo da football scoppiasse in un centro commerciale, verrebbero inevitabilmente presi dei provvedimenti penali. Tuttavia, sotto l’egida dello sport, le norme sociali e le leggi che specificano cosa costituisce un comportamento accettabile nella società sono temporaneamente sospese. Al loro posto c’è un nuovo ordine di autorità, vale a dire le regole ufficiali dello sport in questione. Esso detta le forme di aggressione che sono considerate illegali (ad esempio, un colpo basso) e le condizioni in cui l’aggressività diventa inaccettabile” (Russell 1993: 181).

Questo è anche uno dei motivi che spiega perché così tanti programmi per i giovani che praticano sport – sia a livello nazionale che internazionale – vengano proposti sempre di più in aree svantaggiate o coinvolgendo individui “a rischio”, al fine di contribuire alla riduzione della criminalità e del disagio giovanile promuovendo strategie di inclusione sociale.

 

L’altra faccia della medaglia: quando lo sport incentiva la violenza

Come ha evidenziato Hall (2011), la possibilità che l’attività sportiva generi esiti positivi, soprattutto rispetto alla prevenzione della radicalizzazione giovanile, dipende in larga misura dal lavoro educativo/pedagogico condotto dagli adulti di riferimento, ovvero da allenatori, educatori e insegnanti sportivi:

“lo sport, come la maggior parte delle attività, non è a priori buono o cattivo, ma ha il potenziale di produrre risultati sia positivi che negativi” (Patriksson 1995).

Il rischio di radicalizzazione connesso all’attività sportiva va considerato in relazione a due aspetti distinti: da una parte, è necessario considerare la possibilità che l’attività sportiva in sé o il metodo di insegnamento adottato dagli allenatori possa incentivare e promuovere comportamenti violenti che potrebbero avvicinare il giovane a tendenze radicalizzate di diverso tipo; dall’altra, bisogna considerare il ruolo che lo sport ha avuto nella storia recente (e che può avere tutt’oggi) rispetto alla promozione di ideologie estremiste di stampo fortemente politico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, va infatti riconosciuto che in diversi contesti sportivi si assiste a episodi di violenza, di diseducazione e di aggressività poco o affatto sanzionati dagli adulti di riferimento. Numerose ricerche hanno messo in luce come “lo sport sia diventato una scuola di sessismo, razzismo e militarismo”, ma anche come “nelle giuste circostanze, con una leadership astuta, lo sport possa diventare un terreno favorevole per il cambiamento” (Kidd 2010). Questa ambivalenza della cultura sportiva risulta evidente se si considera il fenomeno dell’agonismo sportivo: le pressioni e l’estrema competitività, tratti essenziali di tale impegno, possono essere considerate anche come potenziali fattori di rischio, poiché possono generare un clima di intolleranza reciproca tra pari, genitori, allenatori e manager sportivi, esacerbando tensioni sociali o culturali. A ciò si aggiunge la sovrabbondanza di metafore guerresche e militaresche che sono entrate nel linguaggio comune dello sport. Sebbene nella maggior parte dei casi si tratti di un lessico volto ad enfatizzare e rafforzare l’elemento emotivo legato all’attività sportiva, esso può anche veicolare una connotazione violenta dello sport e far sì che la violenza verbale si traduca simbolicamente o fisicamente.

Per quanto concerne invece il secondo aspetto, un esempio eloquente è offerto dai diversi regimi totalitari che nel secolo scorso hanno strumentalizzato lo sport per rafforzare la propaganda attraverso cui si promuoveva l’ideologia politica. A questo proposito, Grant (2014) mette in luce la trasformazione che il ruolo dello sport ha compiuto nella Russia Sovietica tra gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione e l’inizio della Guerra Fredda. Se all’alba della Russia post-rivoluzione l’attività sportiva veniva valorizzata quasi unicamente in relazione all’addestramento militare o in nome dei suoi effetti benefici sulla salute della popolazione, con l’inizio della Guerra Fredda lo sport è stato sempre più strumentalizzato come mezzo efficace per promuovere ciò che è diventato noto come “soft power”: la competizione sportiva tra Unione Sovietica e Stati Uniti per l’ottenimento delle medaglie olimpiche divenne una delle narrazioni più efficaci della guerra, preceduta solamente da quella concernente la “conquista” dello spazio. 

Ancora più esemplari sono i casi dell’Italia fascista e della Germania nazista. In un articolo volto all’approfondimento del legame tra sport e ideologia politica, Bairner (2019) sottolinea quanto il fascismo sia un’ideologia essenzialmente orientata all’azione, che pone grande enfasi sul culto del corpo. Il regime fascista è stato il primo a riconoscere il potenziale propagandistico dello sport:

“lo sport orientato al benessere nazionale […] non era una novità ai tempi dei governi fascisti in Europa, ma il vasto uso di esso orientato all’indottrinamento per stabilire un sistema totalitario era una novità” (Krüger 1999: 67).

La stessa strategia si è verificata anche nella Germania nazista:

“storicamente, l’uso dello sport da parte dei nazisti sembra essere stato il più pervasivo ed efficiente tra i regimi fascisti” (ibidem).

In parte, l’interesse nazista per lo sport era, similmente alla Russia sovietica, connesso all’addestramento militare. Tuttavia, dal momento che parte integrante della propaganda nazista era la convinzione della superiorità della razza ariana, era fondamentale, sia ideologicamente che strategicamente, incoraggiare l’attività fisica:

“i nazisti, credendo nella dotazione genetica e razziale, nella sopravvivenza del più forte e nel culto della giovinezza e della forza degli uomini, usavano l’attività sportiva per il loro scopo di unità nazionale” (Krüger 1999: 76).

La relazione tra sport e promozione delle ideologie è importante per comprendere fenomeni che tutt’oggi mostrano tale relazione in modo evidente: basti pensare al fenomeno degli hooligan o degli ultras, entrambi caratterizzati da un culto della violenza che spesso si associa a ideologie proprie di gruppi radicalizzati in senso politico (soprattutto di estrema destra, più raramente di estrema sinistra).

La relazione storica tra sport e ideologia permette di identificare un ulteriore elemento che può giocare un ruolo significativo in relazione alla radicalizzazione giovanile. Non bisogna dimenticare infatti che molti giovani più o meno vicini a gruppi estremisti violenti, in particolare quelli di estrema destra, possono riconoscere nello sport un significato strettamente connesso all’ideologia che abbracciano – basti pensare al culto del corpo e della prestanza fisica veicolato attraverso l’ideologia fascista o nazista.

 

Conclusioni

Il modello ecologico di Bronfenbrenner permette di mettere in luce l’eterogeneità dei fattori che a diversi livelli possono influenzare la scelta di un individuo di intraprendere un percorso di radicalizzazione. Gli aspetti sopra citati come caratterizzanti l’adolescenza, come la dimensione gruppale e la ribellione nei confronti dell’autorità, sono ben presenti anche nell’ambito sportivo, dove costituiscono una parte integrante e strutturante delle attività stesse. Di conseguenza, i centri sportivi possono costituire un vero e proprio “osservatorio” sulla radicalizzazione giovanile per diversi motivi: in primo luogo, attraverso l’osservazione delle dinamiche di gruppo nelle attività sportive, gli allenatori possono identificare eventuali “segnali d’allarme” che potrebbero indicare atteggiamenti radicalizzati. Essi possono dunque mettere in pratica metodologie educative e pedagogiche attraverso cui offrire alternative e/o soluzioni, promuovendo un’inversione dell’atteggiamento radicalizzato verso i valori positivi veicolati attraverso la relazione educativa stessa. Si tratta di un contesto prezioso anche perché per le sue caratteristiche permette di intervenire sulla radicalizzazione giovanile in modo “discreto”, vale a dire senza esercitare una funzione repressiva o categorizzante e valorizzando il lavoro relazionale tra il giovane e il gruppo dei pari e tra il giovane e l’allenatore in quanto adulto di riferimento. In un articolo apparso di recente sulla rivista online “La Città”, Enrico Clementi (2019) mette in luce quello che a suo parere è il quid della relazione educativa tra coach e giovani che praticano sport, affermando che:

“Nella relazione d’aiuto educativa il coach […] è a fianco dell’atleta, cioè né dietro “a spingere”, né davanti “a trainare” o condurre. La relazione d’aiuto educativa prevede cioè la capacità di sapere sostare in quelle aree di “confusione” e disagio, che necessariamente preludono alla crescita e al cambiamento”.

Infine, è necessario tenere presente che si tratta di un ambito in cui la stessa attività sportiva può essere associata a una visione del mondo estremista e violenta, sia essa veicolata (più o meno consciamente) dagli operatori sportivi o meno. In questo senso, è più che mai necessario accrescere la consapevolezza degli allenatori rispetto al tema della radicalizzazione giovanile e delle implicazioni che la relazione educativa ha a tale proposito.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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Note

[1] Per ulteriori informazioni sul progetto, si rimanda al sito web dell’Istituto Psicoanalitico per le Ricerche Sociali, dove è disponibile una descrizione dettagliata del progetto:
https://www.iprs.it/progetti/safe-zone/
È inoltre disponibile il sito web dedicato al progetto al seguente indirizzo:
https://www.safezoneproject.eu/

[2] Le informazioni e i materiali prodotti in seno a tale progetto sono disponibili sui sito web dell’IPRS:
https://www.iprs.it/progetti/mates-multi-agency-training-exit-strategies-for-radicalized-youth/

[3] Basti a tale proposito pensare al movimento di protesta giovanile degli anni Settanta in Italia, considerato estremista ideologicamente rispetto alla sinistra istituzionale poiché si poneva in un’ottica contestatrice, talvolta ai margini della legalità. Tuttavia, il concetto stesso di legalità/illegalità in relazione a tale movimento necessiterebbe di una riflessione più ampia, che tenesse conto anche di questioni quali il diritto alla casa, al lavoro, alla redistribuzione del reddito.

[4] Così viene definito il termine “estremismo” sul Vocabolario Treccani: “estremismo s. m. [der. di estremo, sull’esempio del fr. extremisme]. – L’atteggiamento di chi, nell’azione politica, propugna l’attuazione di un programma con misure estreme, con metodi radicali, intransigenti; anche, il complesso di forze o di gruppi politici che assume tale atteggiamento: edi destradi sinistra (talora indicati, complessivamente, con l’espressione gli opposti estremismi). Con sign. più generico, la posizione di chi sostiene opinioni o teorie estreme, molto avanzate”.

[5] European Union (2017), The contribution of youth work to preventing marginalisation and radicalisation potentially resulting in violent behaviour. A practical toolbox for youth workers and youth organisations and recommendations to policy makers. Results of the expert group set up under the European Union Work Plan for Youth for 2016-2018, Publications Office of the European Union, Luxembourg.