Declinismo, sintomo senile della psicoanalisi contemporanea

"Declinismo, sintomo senile della psicoanalisi contemporanea"

Franco Lolli, “Inattualità della psicoanalisi. L’analista e i nuovi “domandanti”, Poiesis, 2020

Il libro di Franco Lolli, analista di formazione lacaniana, trae il titolo dallo scritto di Nietzsche Considerazioni inattuali, lavoro incompiuto del filosofo in cui egli si ripromette di analizzare con sguardo rigorosamente e spietatamente critico lo stato della cultura europea, in particolare tedesca, del suo periodo.

Lolli raccoglie l’insegnamento di Nietzesche per applicarlo al suo campo di interesse, la psicoanalisi contemporanea. Qui siamo di fronte a un lavoro che segnala la volontà di mettere in critica l’attuale pensiero psicoanalitico prevalente nella sua caratterizzazione di modello interpretativo della società. In particolare, l’attenzione gira attorno a un vertice concettuale che potremmo definire “teoria declinista del padre”, nelle sue  derivazioni a proposito dell’eziopatogenesi della psicopatologia contemporanea e quindi anche della tecnica analitica. Ciò che viene messo in discussione è la  convinzione corrente, diffusa, si potrebbe dire “virale”, che l’aspetto che caratterizza l’organizzazione attuale delle famiglie – nucleo fondante della socialità e quindi della civiltà – è la scomparsa/eclisse/fluidificazione/rarefazione della funzione paterna  come argine normativo: il suo declino. I cosiddetti “nuovi sintomi” che caratterizzano la psicopatologia contemporanea sono ritenuti essere una conseguenza di questa mutazione della struttura familiare. 
Uno sguardo di un analista iper-interpretativo – e forse un po’ capzioso – potrebbe far pensare che Franco Lolli, nello scrivere il libro, si sia identificato con Nietzsche e voglia “far le bucce” ai vari santoni dell’epoca sua, i Jacob Burckhardt e i Richard Wagner del mainstream psicoanalitico dell’oggi.
Operazione nietzchianamente più che interessante anche se pericolosa, forse necessaria per mantenere la psicoanalisi entro lo spazio che gli ha dedicato Freud: di teoria scomoda, spaesante e perturbante. Portatrice, se non di peste, di qualche prurito salvifico per mantenersi vitale. E in effetti il libro tocca la carne viva dell’analista, fa riflettere.

Il libro si sviluppa attraversando tre tesi di fondo:

  1. Una critica alla teoria “declinista” del padre.
  2. L’ipotetica “mutazione antropologica” della psicopatologia contemporanea.
  3. Gli aggiornamenti necessari riguardo alla tecnica psicoanalitica.

Di fatto le due tesi iniziali si fondono in una non soluzione di continuità, convergendo, secondo Lolli, in una prospettiva che afferma la non mutazione della struttura che organizza i fenomeni. Ovvero, nell’impostazione che viene criticata, possiamo riconoscere una causalità sequenziale la quale afferma che le modificazioni intervenute nelle famiglie contemporanee – e nello specifico la c.d. evaporazione della funzione paterna nell’iper-modernità – hanno prodotto un effetto trasformativo nel processo di soggettivazione dell’individuo – definibile lacanianamente come il passaggio dal super io kantiano al super io sadiano – che a sua volta ha generato una modificazione nelle manifestazioni psicopatologiche: i c.d. nuovi sintomi, effetto di un nuovo disagio della civiltà, appunto iper-moderna. In altri termini si può affermare che il declino della figura paterna è la causa dei nuovi sintomi, che a loro volta sono il prodotto della precarietà del senso del limite e quindi dell’assenza della  funzione simbolica del linguaggio incarnata dal padre-maschio, barriera che argina la forza devastante e mortifera del reale pulsionale.
Come non essere d’accordo con Lolli quando, in qualche modo, afferma che ciò che è sostenuto da una certa psicoanalisi a proposito della modernità corrisponde a un luogo comune, a ciò che si sente continuamente dire al bar:

“Non c’è più rispetto per le regole nei giovani, ai tempi miei era diverso…”? È di psicoanalisi che stiamo parlando? Il declinismo (così lo definisce Lolli) della funzione paterna inevitabilmente introduce a una pericolosa logica di nostalgia del padre normatore, a una deriva “neo-conservatorista”, “cripto-paternalista”. E aggiunge che tale prospettiva espone a una sorta di misoginia che alligna tra le pieghe della psicoanalisi, da Freud in poi: la donna, in quanto madre, non è in grado di soggettivare il figlio.

C’è bisogno di un maschio.
Questa sorta di pregiudizio – forse più lacaniano che freudiano, visto che Sigmund  ha avuto il coraggio di dichiarare la sua nescenza e sospendere il giudizio affidandosi, a proposito di femminilità, ai poeti da lui considerati più sapienti – ci porta a fare un’analogia tra il tema edipico classico e l’ideologia patriarcale: il padre, in quanto maschio, instaura la legge che norma l’ingovernabile del femminile. Il materno, in quanto sessuale, è produttore di caos, di barbarie.
Lolli si sottrae alle risposte fuorvianti che di solito vengono usate dai lacaniani posti di fronte a questa osservazione, i quali sostengono che il nome del padre è una funzione simbolica, non ha a che fare con la realtà del genere sessuale di chi la pratica, può essere agita da un maschio o da una femmina. Poi, di fatto, nella pratica clinica concreta, la differenziazione di genere sessuale si manifesta con il suo peso. Eccome!
Si potrebbe dire che il declinismo, in quanto prodotto della psicoanalisi contemporanea, è il sintomo (sinthomo) attuale di un antico morbo che affligge la psicoanalisi da sempre, dalla sua fondazione. Ho sempre pensato che il “vizietto” teorico della psicoanalisi sia stato da subito aver pensato al soggetto – all’umano, al suo costituirsi come tale – concentrandosi sul soggetto maschile e poi derivandone il soggetto femminile. 
Non a caso si parla sempre di maschi: Edipo e non Giocasta o Antigone, Hans e non sua sorella.
Si rimane sulla scia inaugurata dall’Antico Testamento a proposito di Adamo e Eva. 
Se è pur vero che la psicoanalisi è nata grazie a segnali inviati da femmine – le  isteriche della Salpêtrière – di fatto le osservazioni che ne sono conseguite si sono rivolte al maschile per generare il paradigma.
Quindi, tornando alle tesi sostenute da Lolli, potremmo pensare che una psicoanalisi epurata dalle derive neo-paternalistiche – dal suo sinthomo fallocentrico – sarebbe  in grado di rappresentarsi la possibilità di una formazione della soggettività attraverso l’assunzione del nome della madre?
Problema gigantesco, che mi limito a proporre e che ci introdurrebbe a un ripensamento radicale della dialettica edipica in quanto caposaldo attorno al quale gira qualsiasi pratica analitica. E non solo, visto che la struttura edipica – il complesso di Edipo – ha influenzato gran parte della riflessione culturale riguardo al divenire sociale, all’antropologia. Basti pensare a Claude Levi Strauss, alle forme elementari della parentela storicamente conosciute, alla matrice originaria che egli scopre e riconduce al tabù dell’incesto. 
Ma Lolli va oltre, affronta il tema dell’intersezione tra psicoanalisi e scienze sociali.  Ci ricorda che nella storia del movimento psicoanalitico c’è un precedente che ha inaugurato un uso della psicoanalisi per interpretare gli eventi che caratterizzano l’evoluzione sociale della civiltà.
Negli anni quaranta Theodor Adorno in La psychanalyse révisée spezza una lancia a  favore della teoria freudiana, affermando che i c.d. neofreudiani – e in particolare  Erich Fromm – utilizzando la psicoanalisi come strumento di interpretazione della  realtà sociale e politica, snaturano il mandato della teoria freudiana che si trasforma in uno strumento che serve a dare l’illusione che la società e l’individuo possano concordare e dare felicità. In questa sorta di “deriva sociologica” della psicoanalisi si  cancella il mandato consegnato da Freud a proposito del disagio della civiltà: può  essere annullata la sofferenza che è imposta al soggetto nel momento in cui, accettando la legge civile, è obbligato ad assoggettarsi alla rinuncia del desiderio edipico.
La conclusione a cui arriva il libro è che la psicoanalisi non può pronunciarsi riguardo ai fatti sociali, a costo di snaturarsi nella sostanza del suo mandato di teoria perturbatrice. Se si pone come teoria che interpreta lo spazio teorico dell’antropologia, della sociologia, della politica, tradisce il suo mandato che può e deve trovare il suo spazio di azione unicamente nella stanza del clinico. Se ne esce si snatura.
Ma l’affermazione che la psicoanalisi, per mantenere la sua integrità, debba sottrarsi  alla contaminazione che le può arrivare dalle altre discipline – filosofia, sociologia, politica, biologia – e restare una tecnica (techne) conchiusa nello studio del clinico, mi sembra un’affermazione non sostenibile. Anzi, contraddittoria. Cosa dunque dire di Freud, per fare solo un esempio lampante, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io? E cosa dire di Lacan che è divenuto uno degli autori più citati dai filosofi contemporanei? 
Quando, durante una presentazione del libro, ho chiesto a Lolli come sostenere una posizione del genere, considerando che Freud e Lacan sono entrati nel tessuto vivo della riflessione culturale del loro tempo, sono divenuti maÎtre à penser – anzi, per  usare un termine più alla moda, opinion maker – che hanno profondamente influenzato la cultura nel suo divenire, ho avuto una risposta che mi ha disorientato. Gli facevo notare che lui, scrivendo quel libro, diveniva soggetto politico, usciva dall’ambito della pratica clinica. La risposta è stata che l’analista, nel momento in cui si propone osservatore del divenire sociale, si sveste del suo essere analista,  rinuncia al suo ruolo. Come se l’essere analista fosse un investimento “metafisico”, una funzione extra… una sorta di postura che introduce a un “purismo” della funzione analitica. L’analista è tale solo quando incontra l’analizzante. E quindi eccoci giunti all’ambito clinico, alla terza tesi del libro, al “fare” dell’analista nella stanza dove incontra coloro che Lolli definisce i “nuovi domandanti”. Tale definizione ci introduce a un’articolata riflessione sulla domanda “spuria” che arriva all’analista che si trova a confrontarsi con un’utenza che non è quella dell’aristocrazia o alta borghesia viennese con cui interagiva Freud, o all’intelligencija raffinata che faceva domanda d’analisi a Lacan. Non più analizzanti già portatori di una consapevolezza riguardo al proprio inconscio e ai propri desideri rimossi o negati,  ma a pazienti, portatori di una sofferenza la cui soluzione viene demandata al curante, inconsapevoli della loro partecipazione e della loro responsabilità riguardo al loro essere al mondo con sofferenza. La domanda è quella di una psicoterapia,  possibilmente di appoggio, se non, nei casi peggiori, di una pillola che risolva il tutto.
Il tema, anche questo enorme, ci chiamerebbe alla necessità di costruzione di una  storia sociale della psicoanalisi e della sua utenza, che non è ancora stata fatta dagli storici. Di fatto, da sempre la psicoanalisi ha messo il suo agente, l’analista, in una postura sotto alcuni aspetti impossibile.
Freud ci suggerisce di mantenere l’attenzione liberamente fluttuante, cosa che solo  raramente si può fare. Bion ci dice che dobbiamo essere senza memoria e senza  desiderio, di nuovo ponendoci in una sorta di koan buddista o zen. Certo è che l’analista contemporaneo – per dirla con Sartre – si sente con “le mani sporche”. Deve cedere e concedere al domandante spazi spuri di interazione riguardo al setting – che, si tenga sempre a mente, è più un atteggiamento mentale che una circostanza ambientale – accettando qualche sorta di compromesso d’impostazione che rischia di danneggiare la sua prassi clinica. Talvolta gli analisti, specialmente se della SPI, sono costretti a non dichiarare esplicitamente le modificazioni della loro impostazione – come frequenza delle sedute, contesto vis-à-vis, ascolto analitico, costo delle prestazioni, ecc. – per non incorrere in sanzioni da parte dell’istituzione a cui appartengono.
Ma questa è la storia che appartiene a tutti noi. Siamo tutti chiamati ad acrobazie più o meno estreme nei nostri setting, portati ad assumere positure ammorbidite o scomode per indurre il domandante a divenire analizzante, ad acquisire la “volontà di sapere” di foucaultiana memoria che lo porti a prendersi perlomeno una parte di responsabilità della sua sofferenza, a rendersi proprietario del proprio desiderio.
Si potrebbe dire che tutti noi siamo di necessità portati a sporcarci le mani con il bronzo della suggestione, nella speranza di poter toccare l’oro della psicoanalisi.

Il nuovo numero della rivista, aperta alle migliori collaborazioni di settore e in rapporto costante con i vari Ordini professionali della cura, si intitola “La rivoluzione stanca” ed è dedicata alla salute mentale con i contributi di Marco D’Alema, Nerina Dirindin e molti altri professionisti. 

Il numero, sarà disponibile in free download sul sito della rivista, www.dromorivista.it.