Tutti sulla stessa barca

"Tutti sulla stessa barca"

Quando, il 9 marzo 2020, in tutta Italia sono state disposte le misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica, è iniziato un lungo periodo di limitazione della libertà individuale e di trasformazione radicale delle abitudini quotidiane. 
Alcune immagini, trasmesse dalla tv e dai media, sono probabilmente destinate a rimanere impresse nella memoria più di altre.
Tra le più intense, quelle della preghiera del Venerdì Santo celebrata da papa Francesco in una piazza San Pietro deserta e sferzata dalla pioggia.
Un uomo anziano che avanza faticosamente sul sagrato, i lunghi silenzi, il verso dei gabbiani e, in lontananza, l’eco di un’ambulanza. 
“Vedere in televisione quella scena mi ha colpito molto” racconta D., un giovane richiedente asilo che da oltre due anni vive in un Centro di Accoglienza Straordinaria in una periferia romana, in attesa che si concluda la procedura relativa alla sua richiesta di protezione internazionale. D.
parla un ottimo italiano, si informa regolarmente sui media italiani e internazionali attraverso lo smartphone e la tv e per questo quando le nuove regole sono state affisse alle bacheche del centro non è rimasto sorpreso come molti dei circa 100 ospiti della struttura.
“Ho ripensato spesso alle parole che il papa ha usato in quel momento: siamo tutti sulla stessa barca. Il virus non fa differenze tra ricchi e poveri, fra stranieri e italiani, e neppure tra bianchi e neri, nonostante quello che alcuni continuano a pensare. 

Dobbiamo tutti fare la nostra parte in questa situazione”[1]

Fin dall’inizio però è apparso chiaro che non tutte le persone coinvolte la vedevano nello stesso modo. Molti ospiti, ad esempio, non comprendevano il senso di alcuni divieti, specialmente alla luce di alcune contraddizioni evidenti. Sono state vietate riunioni e assembramenti, eppure i pasti hanno continuato ad essere serviti nella sala mensa. I servizi igienici erano, come al solito, in comune e non è stato diminuito il numero di persone in ciascuna stanza.

In qualche caso, anzi, è stato aggiunto addirittura un posto. “Quando alcune persone sono state spostate da una stanza all’altra, si è creata molta agitazione. Correva voce che alcune persone fossero malate e che per questo stessero svuotando una stanza dove isolarle. Io, avendo un buon rapporto con gli operatori, sono riuscito a capire il senso di quei cambiamenti: al centro era stato chiesto di lasciare una stanza libera in caso di necessità e per questo motivo avevano deciso di fare alcuni spostamenti. Ma non c’era nessun allarme e nessun caso sospetto. Sarebbe forse bastato dare qualche spiegazione in più per risparmiarci tutti molta inutile tensione”.

Un monitoraggio realizzato dal Tavolo Asilo e dal Tavolo immigrazione e salute in 200 strutture di accoglienze italiane [2] conferma l’impressione di D.: in mancanza di indicazioni chiare e coordinate, i gestori hanno cercato di mettere in sicurezza ospiti e operatori attraverso iniziative autonome.

Persino rispetto alla gestione di eventuali casi sospetti o positivi, nel 60% dei casi il gestore ha ricorso a una “soluzione fai da te”: c’è chi ha messo a disposizione, all’interno della struttura, una stanza con bagno, chi ha trasferito la persona positiva in un appartamento o in un altro centro. Solo nel 28% dei casi i positivi sono stati trasferiti in una struttura dedicata e istituita da un ente pubblico: nel 37% dei casi attivata dalla ASL; nel 29% dei casi dal Comune, nel 27% dalla Regione e nel 6% dalla Prefettura.
Non una risposta di sistema, insomma, ma una interpretazione delle regole compatibile con la situazione specifica e con le risorse effettivamente disponibili. Per quanto riguarda il clima all’interno dei centri di accoglienza, il racconto di D. conferma quanto  testimoniato anche dal progetto “Guide Mascherate – Messaggi audio a distanza di un metro!”, un audio reportage in 7 puntate realizzato dall’associazione Laboratorio 53 di Roma e fruibile sulla piattaforma Soundcloud [3].

Si oscillava tra due estremi: la convinzione che le misure imposte fossero eccessive e immotivate e la paura, anche sproporzionata, nei confronti degli altri. La tensione ha accentuato spesso la diffidenza e l’incomprensione tra migranti ospiti della stessa strutture e anche tra ospiti e operatori. La frustrazione è stata acuita dal fatto che, venuta meno quasi ogni fonte di reddito aggiuntivo per gli ospiti, tutti hanno dovuto dipendere in misura ancor maggiore di prima dal centro, ad esempio per i pasti. In un lungo tempo vuoto, di inattività forzata, sono emerse prepotentemente le esperienze pregresse di ciascuno. Quelle traumatiche, come la prigionia e la violenza subìta, in Libia o in altri Paesi, hanno reso particolarmente pesante per alcuni la reclusione e l’accresciuta incertezza sui tempi e sull’esito delle procedure. L’esperienza della pandemia nelle strutture di accoglienza offre molti spunti per un ripensamento complessivo dell’intero sistema, che sarà utile riconsiderare anche più “a freddo”. Qualche considerazione può però essere fatta fin d’ora [4].

Le criticità sono state palesemente maggiori nei CAS di grandi dimensioni, dove dopo l’ultima revisione dei capitolati risultano eliminate o ridotte figure professionali quali mediatori, insegnanti di italiano, psicologi. Al contrario, l’accoglienza integrata e diffusa sembra aver risposto meglio allo stress test del Covid-19.
Gli operatori – in un numero proporzionalmente adeguato e qualificati per affrontare le sfide di una repentina ri-professionalizzazione – sono stati presenti “a distanza” e i servizi sono stati riorganizzati rapidamente.
Laddove l’accoglienza è ancora organizzata in appartamenti, l’esperienza del lockdown è stata molto più simile a quella della maggioranza dei residenti, anche rispetto alla relazione con i servizi sanitari territoriali. 

Forse per interpretare gli atteggiamenti, assai diversi fra loro, con cui i migranti forzati hanno vissuto questo periodo particolare, si potrebbe partire dalla domanda suscitata dall’affermazione di Papa Francesco da cui questo articolo ha preso le mosse: quanto ciascuno di loro durante la pandemia si sentiva effettivamente sulla stessa barca dei propri vicini di casa?
Alcuni di loro, come D., si sono sentiti – talora, paradossalmente, per la prima volta – parte della medesima “comunità di destino” degli operatori e della comunità nel suo complesso, specialmente nelle regioni più colpite.
La possibilità di fruire di narrazioni collettive perché si possiedono gli strumenti linguistici, culturali e interpretativi per sentirsi inclusi in esse può rappresentare un importante fattore di resilienza, laddove al contrario estraneità e isolamento contribuiscono ad amplificare ed
esasperare le fragilità. Naturalmente le modalità con cui tali narrazioni vengono diffuse giocano un ruolo decisivo per la loro fruibilità: il messaggio del Papa, costruito con una combinazione particolarmente felice di parole, gesti, simboli e silenzi, è risultato particolarmente efficace.
Per un ripensamento, più che mai necessario, del sistema di accoglienza italiano sarebbe utile individuare con maggiore precisione gli elementi che favoriscono o impediscono una relazione significativa e salutare del migrante con la comunità in cui vive. Pur nell’inevitabile soggettività e unicità di ciascun caso (la migrazione accomuna in esperienze solo in apparenza simili persone altrimenti diversissime), una riflessione sugli aspetti bruscamente messi in luce da una situazione di effettiva eccezionalità presenta nuove prospettive per migliorare l’adeguatezza del sistema di accoglienza, anche rispetto all’obiettivo di favorire una effettiva e rapida autonomia dei migranti che vi accedono. La pandemia ha poi svelato una volta di più che riconoscere la comune vulnerabilità, anche di fronte alle tante disuguaglianze che attraversano le nostre comunità, può rendere queste ultime più solidali e coese.
La guerra tra poveri, irresponsabilmente stuzzicata da ideologiche dichiarazioni a effetto, non è inevitabile. E certamente contribuisce a far affondare la barca.

DROMO, rivista per un terzo pensiero

Questa rivista vuole proporsi come un luogo nel quale queste professioni, che paiono obsoleti retaggi di un mondo che fu, sappiano farsi interpreti del loro ruolo, ricollocando questo ruolo in questo spazio tempo presente che è già futuro, evitando di divenire i servi sciocchi di un potere sempre più occhiuto e pervasivo e quindi asserviti ad una acritica idea di progresso, ma neppure costretti alla costante difesa di un passato che non c’è più.
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Note:

[1]: Queste le parole usate da Papa Francesco: “Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca ci siamo tutti»: Meditazione in occasione del momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia, Sagrato della Basilica di San Pietro, venerdì 27 marzo 2020. Il testo completo è reperibile a questo link: http://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2020/documents/papa-francesco_20200327_omelia-epidemia.html.

[2]: Il report è stato visionato in anteprima da Redattore Sociale, che ne ha dato notizia: E. Camilli, “Covid19. Prassi
improvvisate e difformi: ecco cosa è successo nei centri d’accoglienza”, Redattore Sociale 1 luglio 2020.

[3]: Gli episodi possono essere ascoltati qui: https://soundcloud.com/guideinvisibili/sets/guide-mascherate-messaggi. 
Il format, ideato da Marco Stefanelli, raccoglie in brevi messaggi vocali storie, aneddoti, suoni, considerazioni di migranti che hanno vissuto la quarantena forzata nei centri di accoglienza o in case condivise da famiglie “allargate”.

[4]: Si vedano ad esempio quelle i di C. Marchetti, “Vicini di casa”, in Fare comunità. La pandemia e i migranti, a
cura del sito Comune.info. Il dossier è consultabile al link  https://comune-info.net/fare-comunita-la-pandemia-e-i-migranti/