Normare e curare: questioni di clinica psicoanalitica intorno ai concetti di sessualità e perversione

a cura di Attilio Balestrieri

Negli ultimi decenni, la nozione di perversione sessuale ha conosciuto una revisione critica anche nel mondo della psicoanalisi. Molti comportamenti sessuali a lungo considerati perversi sono stati sottratti a quest’ambito – come nel caso esemplare dell’omosessualità – e la clinica psicoanalitica ha tentato di lasciare in secondo piano il suo carattere più spiccatamente normativo, ancorato al concetto di “normalità sessuale”.

Ne è derivata una sorta di “problematizzazione [1]” dell’idea stessa di perversione sessuale e di perversione in genere, che trova peraltro corrispondenza nella fioritura di una terminologia più “morbida”, di cui la parola parafilìa costituisce l’esempio forse paradigmatico.

Il termine parafilia è stato coniato dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV) per raccogliere in un’unica classe una serie di condotte sessuali (esibizionismo, feticismo, frotteurismo, pedofilia, masochismo sessuale, sadismo sessuale, travestitismo e voyerismo) distinguendole in forma “lieve”, caratterizzata dalla presenza dell’impulso senza la sua messa in atto; “moderata”, quando la messa in atto è occasionale; “grave”, quando è ripetuta ed abituale.

In accordo col carattere descrittivo del Manuale e con riferimento alla versione DSM IV, si tratta di comportamenti che, ben lungi dal configurare vere e proprie entità nosologiche, sono comuni ed estremamente diffusi tra le persone di ogni sorta. Dunque comportamenti che, pur avendo certamente una dinamica ed un’etiologia proprie – al pari di ogni altro comportamento umano – appaiono difficilmente riconducibili a stati omologhi. Almeno dal punto di vista della psicoanalisi, secondo il quale, una volta individuati gli aspetti strutturali che soggiacciono al comportamento definito “normale” (le dinamiche psichiche e le fantasie) questa definizione perde significato. Al di là delle convenzioni interne alla comunità scientifica di riferimento, che sono esse stesse – per definizione – “non” normali, appare in effetti difficile dire cosa siano: un “caso normale”, un “eccitamento sessuale normale”, uno “sviluppo sessuale normale”, una “tendenza naturale”, un “desiderio normale non pervertito”. Com’è noto, nessun analista ha mai incontrato, in sé stesso o nei suoi analizzati, veri e propri prototipi di “normalità”, mentre si riconosce per l’appunto alla psicoanalisi il merito di aver affermato e mostrato l’ineffabilità di questo vessillo, almeno in riferimento alla realtà psichica. Senza ricorrere all’ovvio riferimento al Freud dei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), basti pensare alla Psicopatologia della vita quotidiana (1901).

Nello specifico dell’ambito psicoanalitico, incontra attualmente un ampio favore la tendenza a superare il concetto di perversione, inteso come forma strettamente sessuale. Si preferisce infatti estenderne l’accezione all’intera area relazionale, interna ed esterna. Da qui il termine perversità, suggerito da Otto Kernberg (1995, Aggression in personality disorders and perversions, Yale University Press, New Haven), applicabile a tutti i modelli relazionali che abbiano caratteristiche equivalenti a quelle delle perversioni sessuali. In tal senso, queste ultime vengono a costituire alcune tra le possibili forme fenomeniche specifiche della perversione, alla stregua di casi particolari. Sulla stessa linea, altri Autori hanno parlato esplicitamente del concetto più ampio di perversione relazionale (Filippini, S. 2005, Perverse relationships: the perspective of the perpetrator, in “International Journal of Psychoanalysis”, 86, 3, pp. 755-774; Stein, R. 2005, Why perversion? False love and perverse act, in “International Journal of Psychoanalysis”, 86, 3, pp. 775-800). Quali sono i tratti, o i presupposti, che caratterizzano il quadro perverso della relazione? Il sadomasochismo, inteso come maschera dell’aggressività distruttiva dell’altro – anche in riferimento a ciò che Robert Stoller (1975, Perversion: the erotic form of hatred, Pantheon Books, New York; 1991, Il termine perversione, in Fogel, G.I., Myers, W.A., Perversioni e quasi-perversioni nella pratica clinica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1994) ha chiamato “forma erotica dell’odio” – ed il controllo distruttivo dell’oggetto, connesso ad un’organizzazione narcisistica (Rosenfeld, H. 1971, A clinical approach to the psychoanalytic theory of the life and death instincts: an investigation into the aggressive aspect of narcissism, in “International Journal of Psychoanalysis”, 52, pp. 169-178), che consiste nel mancato riconoscimento dell’altro come persona.

Posto che qualsiasi modo di esprimere la sessualità, a prescindere dalle mete e dagli oggetti, potrebbe far parte a pieno titolo della sfera di desideri e comportamenti che caratterizzano sia una relazione di affetto, sia una relazione perversa, si può tuttavia considerare come perversione ogni forma di sessualità che implichi l’uso strumentale dell’altro, attraverso le dinamiche sopra sommariamente riassunte. Ciò che conta è il pervertimento del carattere “affettivo” della relazione (il sadomasochismo come “forma erotica dell’odio” ed il narcisismo come messa tra parentesi dell’altro) piuttosto che l’insieme delle pratiche attraverso cui si accede al piacere sessuale. Pertanto, l’attenzione del clinico si rivolge in primo luogo alla “qualità” della relazione piuttosto che al comportamento sessuale “in sé”.

Non ha più rilevanza quali siano le maschere disponibili – nelle varie epoche storiche ed all’interno dei diversi contesti sociali e culturali – per partecipare al carnevale della sessualità. Maschere che possono spaziare da quella dell’eterosessuale (la cui maturazione sessuale è pervenuta al primato della genitalità, più o meno finalizzato alla procreazione) a tutte le altre, siano esse già previste dai classici cataloghi delle perversioni o componibili grazie alla disponibilità di “nuove tecnologie”. Tutte possono infatti rappresentare ed esprimere una perversione, nella misura in cui pervertono la relazione: non più incontro tra soggetti consapevoli, posti su un piano – tendenzialmente paritario – di reciproco ed affettuoso rispetto, ma rapporto distorto (che letteralmente ha “deviato dal suo verso” cioè si è “perverso”) perché caratterizzato dall’uso (a fini sadomasochisti o narcisisti) di un altro essere umano.

Quest’orientamento contribuisce senz’altro a liberare tanta psicoanalisi dalle pastoie del moralismo ed apre la via ad una migliore comprensione della diversità umana.

Su un versante, resta “disarmata” – per così dire – quella valenza sovversiva che la perversione vantava e poteva sbandierare in opposizione allo stendardo della normalità. Si accetta infatti che, in accordo con gli assunti di base della psicoanalisi, il desiderio sessuale contiene in sé ed in qualunque sua forma un elemento sovversivo. E, sulla stessa via, si contribuisce a stimolare la riflessione psicoanalitica intorno al significato della sessualità: fenomeno tanto concreto quanto complesso, sulla cui natura misteriosa la stessa psicoanalisi ha posto l’accento, fin dalle sue prime formulazioni, rivelandone scandalosamente il carattere nomade, polimorfo e polidirezionale.

Non si tratta di un orientamento banalmente relativista: qualora definibile, la normalità sessuale descriverebbe al contempo il suo negativo, ovvero l’anormalità sessuale, quindi la sfera del perverso. E, come si diceva, oggi appare assai arduo lavorare intorno al concetto di normalità, in particolare quando si entra nel dominio della sessualità, poiché sempre di più viene a mancare un ancoraggio forte ad un’evoluzione “naturale”, modulata sul dato biologico della funzione riproduttiva. Allo stesso modo, la questione si ripresenta parimenti complessa laddove si voglia far riferimento ad un’adesione rigida e metastorica all’identità di genere.

Se la via verso una definizione normativa della sessualità appare poco praticabile, altrettanto scomoda, soprattutto per uno psicoanalista, si presenta la posizione che pretende di assumere solo il livello di soddisfazione o di piacere dell’individuo quale cartina di tornasole di un assetto “sano”. La richiesta di cura – ovvero la richiesta di realizzare il proprio progetto di felicità – rappresenta infatti, per lo psicoanalista, una domanda che cerca innanzitutto una riformulazione: è essa stessa materiale meritevole di interpretazione. Si potrebbe affermare che la domanda di cura è essa stessa “sintomo”.

Così, se la psicoanalisi – correttamente e con forza crescente – ha rifiutato di farsi strumento di percorsi di progressiva normalizzazione, per altre vie ha comunque continuato a tentare di aiutare l’analizzando portatore di istanze “anormali” (cioè impegnato in conflitti dolorosi con le proprie istanze morali e con il conformismo dominante) ad adeguarsi di fatto a comportamenti sessuali assunti come “normali”, in quanto apparentemente condivisi dai più. Dico “apparentemente” poiché, al di là delle apparenze, è noto ciò che si cela dietro la facciata del conformismo maggioritario: l’analisi dei fatti e dei comportamenti mostra, da sempre, come il cosiddetto “cittadino medio” guardi con favore all’opportunità di giocare con la perversione, talvolta la cerchi esplicitamente, comunque ne goda il frutto proibito, senza essere o sentirsi perciò un perverso.

Oggi, parrebbe necessario allo psicoanalista favorire un percorso di “presa di coscienza” delle diversità di cui ogni individuo è portatore, da un vertice – per così dire – eticamente e scientificamente neutro. Ma in che misura, proprio sul piano della sessualità, ciò effettivamente accade in ambito clinico?

La scommessa di un atto terapeutico non violento, quindi relativamente privo di istanze “normalizzanti”, è certamente affascinante. Tuttavia, curare e normare sembrano in realtà prassi inevitabilmente inscindibili. Le peripezie della sessualità e dei desideri sono da sempre il luogo privilegiato su cui agisce la cura – almeno per coloro che lavorano ancora nel solco tracciato da Freud e, almeno per noi, ripreso da Gindro. Com’è allora possibile sospendere la funzione normativa – o, quanto meno: disgiungere la cura dalla norma – proprio sul terreno della sessualità agita e fantasticata, che è il luogo psichico in cui si incardina il senso stesso dell’agire analitico?

È sufficiente appellarsi ad un’idea di normalità riferita ad una dimensione relazionale – per molti versi “meta sessuale” – oppure, ancorché in forma larvata, continuano ad operare nella mente dell’analista vari cataloghi di perversioni, forse diversi da quelli di Havelock Ellis e magari modulati, come sostengono alcuni autori (penso ad esempio a Robert Stoller già citato, oppure a Joyce McDougall, in particolare 1991, Perversioni e deviazioni nell’atteggiamento psicoanalitico: effetti sulla teoria e sulla pratica, in Fogel, G.I., Myers, W.A., Perversioni e quasi-perversioni nella pratica clinica, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1994), sul mal celato timore della perversione di cui l’analista generalmente evita di prender consapevolezza, sull’atteggiamento difensivo dell’analista nei confronti dei piaceri che la perversione procura al “perverso”, o sulla perversione per così dire “assertiva” dell’analista che ha razionalizzato ed idealizzato i propri comportamenti perversi? Come a dire: la perversione esiste, ma perverso è sempre qualcun’altro!

Tentativo di circoscrivere alcuni punti di vista

Il tema della “perversione sessuale” spinge oggi a considerare una complessità e pluralità di vertici di osservazione e teorizzazione, in cui lo “sguardo psicoanalitico” viene necessariamente a confrontarsi con altre discipline, quali la psichiatria, l’etica ed il diritto. L’insieme di questi vertici va inoltre considerato tenendo conto delle determinanti di ordine “culturale”, che contribuiscono ad informare il pensiero comune ed il comune sentire – ivi compreso “l’ascolto” psicoanalitico – in merito a questioni cogenti, quali il rapporto tra normalità e devianza, tolleranza e repressione, comprensione e rifiuto, riconoscimento e negazione.

Il modello storico della perversione sessuale

In chiave storica, un modello di lettura della perversione sessuale risale alla stessa definizione del termine, utilizzato in ambito psichiatrico da Bénédict Augustin Morel (Traité des dégenérescences physyques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, 1857) e ripreso da Richard von Krafft-Ebing (Psichopathia sexualis, 1886) per indicare l’insieme delle condotte sessuali “contro natura”. Segnalo che già quest’Autore distingueva tra “vizio” (perversità) e “malattia” (perversione) mostrando dunque di aver piena consapevolezza della necessità di prendere in considerazione – ai fini della definizione corrente di ciò che viene a configurarsi come perverso – anche parametri inerenti il giudizio morale.

Un inciso: la perversione è solo sessuale?

Vale ricordare che – prima della psicoanalisi ed anche ai nostri giorni – la perversione è comunemente intesa come deviazione dell’istinto, considerando l’istinto alla stregua di un comportamento preformato – proprio di una determinata specie – e relativamente invariabile rispetto al suo compimento ed al suo oggetto. Se si ammette una pluralità di istinti, il modello della perversione sopra accennato (le condotte “contro natura”) travalica l’ambito della sessualità (di cui viene a costituire solo un caso particolare) ed assume un’estensione molto più ampia, che comprende, ad esempio: la perversione dell’istinto della nutrizione o dell’istinto posto alla base dell’idea dell’uomo quale “animale sociale” (di cui costituiscono esempi l’indifferenza, la tendenza all’isolamento, l’anaffettività o le varie forme di “crudeltà” nei confronti dei propri simili).

Il punto di vista della sessuologia sulla perversione sessuale

Tornando a restringere la focale sullo specifico della perversione sessuale, ancora in chiave storica, questo tema ha ovviamente attratto l’interesse della nascente sessuologia. In base all’analisi comparata (storiografica, antropologica, biologica e psicologica) ed in base alle risultanze di indagini empiriche (le prime somministrazioni di questionari ed interviste) numerosi autori – da Havelock Ellis (Studies in the Psychology of Sex, 1897-1928) ad Alfred Charles Kinsey (Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948, Il comportamento sessuale della donna, 1953) – hanno messo in evidenza l’estremo polimorfismo e l’estrema variabilità del comportamento sessuale, nel cui ambito un’ampia serie di condotte, che pure portano il segno della perversione, costituiscono parte integrante della sessualità ritenuta normale o appaiono comunque compatibili con quest’ultima. Rilevando, in sostanza, la difficoltà di pervenire sia ad una definizione esauriente del concetto di perversione sessuale, sia ad una classificazione netta delle condotte, nonostante i numerosi “cataloghi” proposti o presi in prestito dalla psichiatria.

Il punto di vista della psicoanalisi “delle origini” sulla perversione sessuale

In questa cornice si colloca anche il fatto per cui le perversioni sessuali sono state al centro della psicoanalisi “degli esordi”. La psicoanalisi parla infatti di perversione prevalentemente in relazione alla sessualità. Lo studio sistematico delle perversioni sessuali era all’ordine del giorno al tempo in cui Sigmund Freud metteva mano all’elaborazione della sua teoria della sessualità (si pensi, ad esempio, ai già citati lavori di Richard von Kraft-Ebing ed Havelock Ellis, a cui Freud stesso ha fatto esplicito riferimento). Tuttavia, questi studi descrivevano le perversioni sessuali per com’è possibile coglierle attraverso l’osservazione della condotta sessuale dell’adulto. L’originalità del contributo freudiano consiste nell’aver gettato luce sulla sessualità infantile, osservando che: «… la disposizione alla perversione non è qualcosa di raro e di particolare, bensì una parte della costituzione detta normale» (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905). In questa luce, la perversione adulta appare riconducibile alla persistenza, oppure alla ricomparsa, di una componente parziale della sessualità infantile.

È importante la conseguenza che ne deriva, ai fini della definizione stessa della perversione: la sessualità considerata normale non rappresenta un dato della natura umana: «… l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna non è una cosa che va da sé […] bensì un problema che va spiegato» (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905). La sessualità umana appare dunque “pervertita” nella sua essenza, poiché non si distacca mai dalle sue origini, che la inducono a cercare il piacere non già in una direzione specifica (il coito genitale, più o meno finalizzato alla procreazione) bensì nel piacere in sé, connesso a qualsiasi pulsione o funzione somatica.

La normalità sessuale in psicoanalisi

Tuttavia, di fronte all’anarchia che caratterizza la disposizione polimorfa della sessualità infantile e di fonte al fatto per cui la maggior parte delle perversioni compare nello sviluppo psicosessuale di ogni individuo, la psicoanalisi parla anche, a partire da Freud, di “normalità” sessuale. Ovvero: di “normalità” del comportamento sessuale. Da questo punto di vista, si può dire che, fin dalle sue origini, la psicoanalisi si scontra con una sorta di contraddizione, ovvero solleva un problema: si tratta probabilmente del problema a cui rimanda anche la presente indagine sull’uso clinico della categoria “perversione sessuale”, peraltro annunciato nelle due parole, legate da una congiunzione e poste a titolo della tavola rotonda: normare e curare. Infatti, nel parlare di normalità, Freud – e gran parte della psicoanalisi – ha riproposto la stessa concezione normativa della sessualità che aveva un attimo prima messa in discussione – con un approccio tanto rivoluzionario quanto scandaloso. Nel reintrodurre la nozione di normalità, tutto sommato, Freud giunge a classificare come perversione sessuale ciò che – in ampia misura – era da sempre riconosciuto come tale, cioè: il “contro natura”, ancorché variabile a seconda delle epoche storiche e degli ambiti culturali. D’altronde, resta questo il motivo per cui oggi ha ancora senso parlare di perversione sessuale, nell’ambito della psicoanalisi freudiana. Se non vi fosse l’idea radicata di una normalità, la questione della perversione perderebbe significato. Ovvero: se non permanesse il bisogno di classificare le condotte sessuali in riferimento ad un modello di sessualità “normale” (ancorché “ideale”) nessuno si porrebbe il problema di definire ciò che è perverso.

Provando ad essere più espliciti: in accordo col primo Freud, la sessualità è polimorfa nella sua essenza (nasce “pervertita”) e non si distacca mai dalle sue origini; tuttavia – ancora in accordo con Freud – essa va incontro ad uno “sviluppo”. È vero che il “punto d’arrivo” di tale sviluppo non dipende solo dalla natura (le più o meno rigide determinati di ordine biologico) ma dalla storia personale del soggetto (quella storia di cui la psicoanalisi clinica ricostruisce, per l’appunto, lo svolgersi). Resta però il fatto che la nozione stessa di “sviluppo” presuppone l’idea di una norma: la sessualità nasce polimorfa, ma “si sviluppa” secondo un verso, come fanno notare Jean Laplanche e Jean-Bernard Pontalis, nel loro celebre Vocabulaire de la psychanalyse, del 1967, diretto da Daniel Lagache. Tale verso è quello che tende a raggiungere – attraverso fasi “più o meno” definite – un termine “più o meno” preciso: l’organizzazione genitale (“più o meno” finalizzata alla riproduzione “tradizionalmente intesa [2]” della specie). Questa è la stella polare della psicoanalisi freudiana. La bussola dei naviganti che si muovono nei suoi vari ambiti è polarizzata verso una norma sufficientemente chiara.

Come si organizza tale norma? In primo luogo attraverso l’organizzazione genitale! Essa costituisce la norma, nella misura in cui: a) “unifica” la sessualità; b) le conferisce un senso e c) subordina all’atto genitale le “pulsioni parziali”. Il mistero della sessualità e gli enigmi a cui essa rimanda possono così trovare una soluzione, che decide la vicenda di Edipo, posto di fronte alla Sfinge. Si tratta di una soluzione “disperante” o “rassegnata”, come direbbe Sandro Gindro. Tuttavia è questa la risposta che Freud riesce a fornire all’inquietante questione che egli stesso ha sollevato nell’affermare che «… l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna non è una cosa che va da sé […] bensì un problema che va spiegato» (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905). Dopo aver posto il problema, Freud l’ha spiegato individuando come e perché la sessualità inizialmente anarchica (legata alla ricerca del piacere e di tutti i piaceri possibili, muovendosi in qualsiasi direzione) si “sviluppa” lungo un percorso “normale”, che ha una direzione ed un fine.

Attenzione! Nell’individuare questo percorso, Freud rifugge dal fare appello ad una norma intesa come convenzione sociale: non è il dissenso sociale a render perverse – ad esempio – l’omosessualità, la pedofilìa, la zoofilìa, il feticismo o la coprofilìa, bensì il loro restare ancorate ad una sessualità, per così dire, “infantile” o “immatura” (una sorta di sessualità atresica, atrofica o distrofica in alcune sue parti, cioè non pienamente compiuta e sviluppata). Infatti, dal punto di vista della psicoanalisi freudiana, queste condotte sessuali restano perverse (sia nella teoria, sia nell’occhio del clinico) anche nei contesti sociali e culturali in cui sono molto diffuse, tollerate, esplicitamente ammesse o non proibite [3]. Torno a dire: questo è il motivo per cui ha ancora senso parlare di perversione sessuale in psicoanalisi, anche a prescindere dal fatto per cui la psicoanalisi stessa può assumere un orientamento più o meno tollerante nei confronti di alcune perversioni (come nel caso paradigmatico dell’omosessualità [4]).

Attenzione ancora ad un altro argomento! Lo sviluppo normale non si esaurisce nel solo raggiungimento dell’organizzazione genitale. Sappiamo che la maggior parte delle condotte perverse (tra quelle che siamo in grado di intercettare come psicoanalisti, psichiatri forensi, criminologi, operatori sociali o attraverso l’ascolto di comunicazioni personali o dei mezzi di comunicazione di massa) si presentano sotto il primato dell’organizzazione genitale: si tratta infatti di “forme” complesse ed altamente “differenziate”, in cui è generalmente soddisfatta la “determinante” connessa al “primato” genitale. Ne deriva che, in gran parte dei casi di perversione, la presenza del funzionamento genitale, in sé, rappresenta un aspetto del tutto marginale e non costituisce dunque la sola discriminante che individua la perversione. Ciò suggerisce che la norma, a cui la psicoanalisi freudiana fa riferimento, deve trovar compimento al di là del raggiungimento del “funzionamento genitale”. Infatti, l’organizzazione genitale dell’individuo deve fondarsi anche sul superamento del complesso di Edipo, dopo aver assunto il complesso di castrazione, tramite l’accettazione del divieto dell’incesto.

Dunque la norma non è solo configurata dal raggiungimento dell’organizzazione genitale, ma necessita di un altro elemento: il superamento della dinamica edipica. Qui trova compimento il “percorso della normalità”, che conferisce senso allo sviluppo del “primato” genitale. In accordo con quest’assunto, gli ultimi lavori di Freud sul feticismo pongono l’accento sul significato difensivo delle perversioni nei confronti degli sviluppi di tale “percorso di normalità”. Ne risulta che la perversione non è solo la manifestazione grezza (non rimossa) di un portato della sessualità infantile (polimorfa ed anarchica) bensì è anche il risultato di varie e complesse operazioni difensive, assimilabili a quelle che si riscontrano nel funzionamento mentale psicotico (si pensi al diniego ed alla scissione, ben descritti da Freud nell’analisi del feticismo).

In sintesi, la psicoanalisi freudiana parte dalle celebri affermazioni [5] che avvicinano, pur se per opposizione, nevrosi e perversioni: «la nevrosi è una perversione negativa … [essa è] il negativo della perversione» (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905). Tuttavia, nell’organizzare il suo impianto teorico, la psicoanalisi freudiana scopre che le perversioni parlano anche di qualcos’altro: esse sono spesso il segno di strutture psichiche assestate intorno a nuclei psicotici o pre-psicotici. Detto in altri termini: la perversione nasconde un quadro psicotico o, in quanto tale, dal punto di vista della diagnosi strutturale, va considerata alla stregua di una difesa e di un rimedio contro la follia.

Cos’è dunque la perversione sessuale? Essa è il portato di un insieme di comportamenti sessuali, che gli individui mettono in atto per sottrarsi al compito (altamente impegnativo e maturativo) di trovare risposte adeguate agli enigmi che caratterizzano la realtà psichica della specie umana: il mistero della propria origine (o dell’identità), il mistero della differenza tra i sessi (la bisessualità originaria), il mistero della differenza tra le generazioni (il complesso di Edipo). Detto col linguaggio di Freud: le rappresentazioni “originarie [6]” della seduzione, della castrazione e della riproduzione, che trovano la loro “messa in scena individuale” nella dinamica Edipica con cui ciascuno si confronta. La frase di Freud «… l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna non è una cosa che va da sé […] bensì un problema che va spiegato» vale per tutti: essa esplicita un problema che ciascuno è chiamato ad affrontare, nel corso della propria vita. Alcuni riescono a rispondervi adeguatamente, altri no. Qui si pone la differenza tra normalità e perversione, cioè la questione di ciò che è classificabile come perverso.

Il modello della perversione “relazionale”

In epoca contemporanea, nella lettura psicoanalitica della perversione, al punto di vista comportamentale e pulsionale – di cui sopra ho tentato di riassumere i tratti fondamentali – si è da tempo affiancata l’attenzione alla “qualità” della relazione interpersonale. Questo passaggio ha distolto l’attenzione dallo sviluppo “endogeno” – o “naturale” – della pulsione, per sollevare invece un’altra domanda: qual è il ruolo che l’altro riveste nella mente del soggetto e nel suo sviluppo psichico? Chi è il Tu per l’Io?

Certamente, è da sempre noto che la pulsione non è pensabile se non in riferimento ad altro – un Altro – verso cui tendere. Sappiamo tuttavia che le idee di pulsione autoerotica, narcisismo primario e tendenza all’auto-soddisfacimento – mutuate da molti passi del pensiero freudiano – hanno a lungo esercitato un influsso determinate sugli sviluppi della ricerca psicoanalitica ed in ampia misura continuano ad esercitarlo. Per questo motivo, il ricorso alla prospettiva relazionale è venuto a rappresentare anche una sorta di novità [7].

Ai fini del nostro discorso, la comparsa di un modello di perversione “relazionale” comporta molte conseguenze di estremo interesse. Per comodità espositiva, tenterò di formalizzarne quattro, attraverso la discussione che segue.

In primo luogo, il ricorso esplicito alla categoria relazionale conferma il legame tra il tema della perversione ed il registro dell’etica. Si può dire che il modello relazionale propone e promuove il passaggio dai parametri inerenti il giudizio morale (già compresi nel modello “storico” di perversione sessuale, prima descritto in riferimento alla psichiatria di fine Ottocento) a quelli attinenti la ricerca del bene, a partire dalla propria coscienza. Nel tentare di venire in chiaro con sé stessi – ovviamente attraverso l’analisi dell’inconscio – la domanda che si pone all’agire psicoanalitico non riguarda più – o non solo – cosa è normale, né cosa è naturale, né cosa è accettabile dal punto di vista culturale, sociale o legale. La domanda si formula invece in tutt’altri termini, racchiusi in una frase tanto semplice quanto evocativa: chi è l’Altro. Una domanda di assai ampia portata [8], che conduce a considerare come condotta perversa ogni gesto in cui vi sia una squalifica dello “statuto dell’altro [9]”.

Da qui la seconda conseguenza: l’introduzione del modello relazionale estende il concetto di perversione ben al di là dell’ambito delle condotte sessuali. Non ha più senso parlare di “cataloghi” delle perversioni sessuali, poiché l’idea di perversione è ora agganciata alla “qualità” della relazione con l’altro. E la qualità della relazione con l’altro può rivelarsi perversa in qualsiasi espressione della vita umana, venendo la sessualità a costituirne solo un “caso particolare”. In questa luce, sono leggibili come perversioni un gran numero di fenomenologie, tra cui, ad esempio: i disturbi del comportamento alimentare, la “crudeltà”, la devianza e la criminalità, le varie forme di dipendenza (che spaziano dalla dipendenza da sostanze proibite o non proibite, alla dipendenza dal gioco, dall’attività ginnica o dal lavoro). Ecco perché, per estensione, si può dire a buon diritto che porta con sé il segno della perversione qualsiasi gesto associato alla “squalifica dell’altro”.

Posto ciò, il ricorso al modello relazione implica una terza conseguenza, che rimanda alla radice comune a tutte le perversioni: la difesa dell’equilibrio interno del soggetto. Quest’argomento riporta al tema della “diagnosi strutturale” ed al legame tra “struttura perversa” e “struttura psicotica”, di cui s’è fatto cenno nel paragrafo precedente. Infatti, dal punto di vista psicodinamico, in accordo con Freud, vi è un ampio consenso nel considerare la perversione anche come una strategia difensiva dalla “caduta” in qualcosa di più “grave” e più temuto: l’immagine terrifica dell’altro, il fantasma della perdita di contatto con l’altro, l’idea della frammentazione del soggetto, le angosce di separazione ed individuazione. In sintesi e col linguaggio della metapsicologia di Sandro Gindro: la perversione significa la difesa dalla frustrazione e dal dolore [10] (inteso come dis-piacere). Come a dire che l’Io ha bisogno del Tu, altrimenti si perderebbe. Ma la tensione verso il Tu (il “verso” naturale della relazione) espone all’inevitabile frustrazione che ne può derivare. Ed è qui che sorge la perversione. Essa è infatti interpretabile quale tentativo – tanto “perverso” quanto “paradossale” – di difendersi dalla frustrazione, tramite l’alterazione dello statuto del Tu, cioè: tramite l’impossibile reificazione dell’Altro. Dico impossibile, poiché nella sua “impossibilità” risiede – e si rivela – il carattere “perverso” del tentativo di reificazione [11].

Vengo infine a discutere la quarta rilevante conseguenza – ai fini del discorso sulla perversione sessuale – che a mio avviso discende dall’affermarsi del modello di perversione relazionale. Come già detto, una volta posto al centro del modello di perversione la “qualità” della relazione, il significato della condotta sessuale passa in secondo piano, parimenti all’interesse verso la sua catalogazione. Qualsiasi comportamento sessuale può considerarsi perverso, laddove è presente una squalifica dello statuto dell’altro. Ad un tempo, nessun comportamento sessuale può definirsi perverso (se non in base alla convenzione sociale o al vieto moralismo) laddove tale statuto non sia squalificato. Il punto cruciale risiede nel fatto per cui, da questo punto di vista, la perversione può configurarsi anche laddove sia stato raggiunto il pieno e completo sviluppo della sessualità “normale”. Cioè laddove, in termini di sviluppo pulsionale, il comportamento sessuale appare maturo ed adulto, poiché porta con sé il segno dell’unificazione della sessualità sotto il primato genitale ed il segno del fatto per cui alla sessualità è stato conferito un senso preciso (ancorché “più o meno” corrispondente alla riproduzione della specie) attraverso la risoluzione delle dinamiche edipiche. Anche il comportamento dei soggetti normalmente eterosessuali, adulti e maturi, può dunque produrre una grave perversione, quando il rapporto eterosessuale normale (“più o meno” finalizzato alla procreazione) porta con sé il segno della squalifica dell’Altro. Il caso è tutt’altro che eccezionale. Siamo infatti abituati – per via di un portato “culturale” e storico – a pensare che la perversione sia una sorta di “mostruosità”, che consiste nel mettere in atto condotte “contro natura”. Attenzione! Ciò vale sia dal punto di vista del modello pulsionale (ponendo l’accento sulla condotta immatura di colui che non riesce a compiere pienamente il proprio sviluppo sessuale attraverso l’unificazione della sessualità tramite il superamento della dinamica edipica) sia dal punto di vista del modello relazionale (ponendo l’accento sulla condotta di colui che non può fare a meno di squalificare lo statuto dell’altro).

Ad un indagine più approfondita – quella che consente di sottoporre a revisione critica i propri “a priori” ed osservare più serenamente i fenomeni – appare invece come la squalifica dello statuto dell’altro sia un tratto frequentemente – e, per molti versi, “normalmente” – associato alle condotte eterosessuali normali [12], cioè alle condotte unificate sotto il primato genitale, attraverso la normale risoluzione delle dinamiche edipiche.

Vi è un consenso unanime nel ritenere che la perversione nasconda un quadro psicotico. Per questa sua caratteristica, dal punto di vista della diagnosi strutturale, la perversione rappresenta una difesa ed un rimedio contro la follia.

Il modello della perversione relazionale consente di dare evidenza al fatto per cui la condotta eterosessuale, ancorché ritenuta “normale” – con ottime ragioni, dal punto di vista della teoria del “normale” sviluppo della sessualità – può costituire anch’essa un comportamento sessuale che gli individui mettono in atto per sottrarsi al compito (altamente impegnativo e maturativo) di trovare risposte adeguate (vale a dire: “non psicotiche”) agli enigmi di cui ha parlato Sigmund Freud e che caratterizzano la realtà psichica della specie umana: il mistero della propria origine, il mistero della differenza tra i sessi, il mistero della differenza tra le generazioni. Torno a dire che la frase di Freud «… l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna non è una cosa che va da sé […] bensì un problema che va spiegato» vale per tutti: è un problema con cui ciascuno si confronta, nel corso della propria vita. Torno anche a dire che alcuni riescono a rispondervi adeguatamente, altri no.

Qui si può situare la differenza tra normalità e perversione, cioè la questione di ciò che è classificabile come perverso. Tenendo però conto di quanto messo in luce dal modello della perversione relazionale, debbo tuttavia aggiungere: non è detto che quanti riescono a rispondere adeguatamente a tali quesiti attraverso ciò che Freud definisce “sviluppo normale” si pongono perciò al riparo della perversione sessuale relazionale. Infatti, dal punto di vista relazionale, molti soggetti che rispondono “adeguatamente” agli enigmi originari della sessualità (seduzione, castrazione, riproduzione) lo fanno a spese della qualifica dello statuto dell’Altro. Più esplicitamente: il normale sviluppo della pulsione sessuale (primato della genitalità associato al superamento della dinamica edipica) può giungere spesso a compimento proprio attraverso la squalifica dello statuto dell’altro. Laddove l’altro è inteso sia come l’Altro (l’inconscio, secondo la terminologia di Jaques Lacan) sia come il Tu. Per essere più chiari: l’opaco tran tran della vita coniugale, la sessualità coniugale imposta, le “scappatelle” con coloro a cui si riserva la connotazione di “amanti” [13], “l’avventura col trans” o lo scambio di coppie, al pari della fedeltà garantita solo “per paura” costituiscono solo alcuni dei molti esempi possibili di “normali”, ancorché “gravi”, perversioni sessuali relazionali. Dico “gravi”, perché le considero tali sia in quanto manifestazioni di per sé “sintomatologiche” di una squalifica dello statuto dell’altro, sia come segno della sottostante presenza (dal punto di vista della diagnosi strutturale) di dinamiche più profonde, ascrivibili al registro del funzionamento mentale psicotico.

In accordo con quanto segnalato nel paragrafo sulla normalità sessuale in psicoanalisi, concludo questo paragrafo col richiamare ancora l’attenzione su una – a mio avviso – palese e problematica contraddizione, presente nella teoria e nella clinica psicoanalitica. Tale contraddizione riguarda il fatto per cui la psicoanalisi ammette un modello di sessualità normale (che orienta decisamente il lavoro clinico) ma, nel contempo, enucleando fino in fondo le conseguenze della nozione di perversione relazionale, la stessa psicoanalisi si trova a scoprire che il modello di sessualità normale può anch’esso rivelarsi in molti casi abitato da dinamiche profondamente perverse.

A margine, vale ricordare che tale aspetto (posso solo descriverlo con l’espressione paradossale “l’aspetto perverso dello sviluppo sessuale normale”) emerge sempre più frequentemente dall’osservazione clinica, probabilmente anche in concomitanza con le nuove evoluzioni cui va oggi incontro la dinamica edipica, di cui s’è ad esempio discusso nel corso del Convegno del 2008 “Il Complesso del Piccolo Hans. Nuove costellazioni edipiche?”.

Il vertice del DSM

Questo vertice sottolinea l’aspetto legale e sociale delle perversioni. Pur se esso prende esplicitamente le distanze – in accordo con le sue finalità axiologiche e descrittive – dalla prospettiva più squisitamente etica.

Tuttavia, sono gli psichiatri (non solo in ambito forense) coloro che per primi pongono l’accento sul ruolo delle variabili culturali nell’influenzare il grado di “patologizzazione” delle condotte perverse, la loro classificazione e la maggiore o minore propensione dei clinici a diagnosticarle come tali, nonché il maggiore o minore ricorso della magistratura alla consulenza psichiatrica.

Come esempio in tal senso, più che il mutato atteggiamento culturale nei confronti delle scelte omosessuali, è stato ricordato il caso della “criminalizzazione [14]” della pedofilìa, che ha peraltro condotto a distogliere pericolosamente l’attenzione dalla sessualità infantile.

Del resto, il Manuale DSM, almeno nella sua versione IV, riprende il termine parafilìa e preferisce parlare di disturbi dell’identità sessuale, sottolineando che le parafilìe non implicano disfunzioni sul piano del funzionamento sociale (comportamento lavorativo e dell’adattamento). Il termine parafilìa è stato inoltre recuperato per raccogliere in un’unica classe una serie di condotte sessuali (esibizionismo, feticismo, frotteurismo, pedofilìa, masochismo sessuale, necrofilìa, sadismo sessuale, travestitismo e voyerismo) distinguendole in forma “lieve”, caratterizzata dalla presenza dell’impulso senza la sua messa in atto; “moderata”, quando la messa in atto è occasionale; “grave”, quando è ripetuta ed abituale. Le parafilìe sono altresì interpretate secondo diversi modelli: come patologia dell’impulsività, della compulsività o dell’addiction. Nello spettro dei disturbi impulsivi e compulsivi, le parafilìe si collocano più spesso sul versante dell’impulsività (egosintonia, ricerca del rischio e del pericolo) e meno spesso su quello della compulsività (egodistonia, evitamento del rischio e del pericolo) pur se nella pratica clinica le due posizioni possono coesistere.

Questione di non poco conto: come si entra il contatto col paziente perverso?

Generalmente lo psichiatra, ed in molti casi lo psicoanalista, entrano in contatto con queste persone nel corso del loro operato all’interno dei servizi. Il che corrisponde spesso al fatto per cui la parafilìa si configura come ego distonica, oppure implica questioni legali. In questi casi, giunge all’ascolto dello psichiatra o sul divano dello psicoanalista un paziente a cui è già stata attribuita una diagnosi. Con le ovvie conseguenze che ne possono derivare in merito a temi quali la scelta del percorso di cura (sul versante dell’analizzando) e la finalità della cura (sul versante dell’analista).

Del tutto diverso il caso in cui si rivolga ai servizi (oppure al libero professionista) con una richiesta di cura, non già “il perverso”, bensì colui che ne subisce la condotta (ad esempio il partner non consenziente).

Nell’esercizio dell’attività libero professionale è invece più facile intercettare “spontaneamente” condotte perverse o tratti di perversione, nel racconto di analizzandi che intraprendono un percorso psicoanalitico attraverso le modalità tradizionali.

Nonostante queste differenze configurino contesti di lavoro non omologabili, in entrambi i casi (lavoro nei servizi con pazienti già “diagnosticati” e lavoro nel proprio studio) potrebbe essere interessante effettuare un sondaggio su quale sia il comune – o il diverso – sentire dei clinici in materia di perversione.

Il punto di vista dell’impostazione psicoanalitica “gindriana”

Ho fin qui tentato di mettere in luce alcune questioni: quali sono i modelli su cui si costruisce oggi l’idea della perversione; come questi modelli determinano la sensibilità dei clinici nel percepire la dimensione (o i tratti) del “perverso” e del “non perverso”, durante l’ascolto dell’analizzato; di fronte alla percezione di aver intercettato un tratto perverso, qual è la conseguenza che ne deriva ai fini del percorso di cura? È ora tempo di dire anche come si configurano tali questioni nella pratica clinica degli analisti formati da Sandro Gindro, che presenta alcune peculiarità rispetto agli approcci alla perversione sopra descritti.

Gindro non ha quasi mai parlato di normalità sessuale. Dunque non abbiamo mai pensato che ci fosse una condotta sessuale “normale” o più normale di altre. Ed abbiamo sempre guardato con disincanto ad una più o meno rigida evoluzione per fasi dello sviluppo psicosessuale. La pulsione sessuale sorge senza un oggetto, ma sin da subito ne va alla ricerca. Lo troverà nell’altro sesso e si darà come fine la procreazione. Questa ricerca è piena di imprevisti e, soprattutto, è sempre storicamente condizionata e condizionabile. La pulsione non è fissata in schemi istintuali rigidi. Ogni sviluppo non è né normale, né anormale: è semplicemente uno dei possibili sviluppi storicamente determinati e determinabili. Il desiderio è costitutivo, sempre contraddetto, sempre alla ricerca di …[15]. La cultura e l’educazione, assai più dei meccanismi biologici, manipolano la pulsione sessuale. I cataloghi delle forme di sessualità (e delle perversioni sessuali) costruiti dalla psichiatria e dalla sessuologia non sono invenzioni aprioristiche, ma rispecchiano (più o meno fedelmente) alcune forme essenziali, attraverso cui la sessualità si esprime, nelle culture e nelle epoche storiche. Certamente, molte di queste forme sono indotte e l’individuo se le ritrova come contenuti psichici. La sua vita di persona sessuale sarà arricchita, impoverita o tormentata dal gioco conscio ed inconscio di queste forme, introiettate dal singolo, dal gruppo di appartenenza o dall’intera società. Ciò che nell’inconscio sociale si configura come sessualità normale o come perversione null’altro è se non un insieme di modalità attraverso cui trova espressione il rapporto sessuale con l’altro. Per questo motivo, non è detto che si debbano accettare passivamente tutte le modalità di espressione della sessualità (rapporto sessuale con l’altro) previste al’’interno di un contesto sociale e culturale. Così come non si accettano passivamente tutte le forme di rapporto esistenziale, politico ed economico – solo per citare alcuni delle molte dimensioni possibili. La cura psicoanalitica consiste anche in un percorso di revisione critica degli “a priori” che informano i modelli e le condotte sessuali. “Liberazione sessuale” non vuol dire liberazione di qualunque desiderio in qualunque forma, ma appropriazione di tutte le possibilità sessuali, reali e concrete, che non distruggano ma arricchiscano il rapporto con l’altro. Questa appropriazione parte dunque dalla consapevolezza dei propri desideri. Non già per ritrovare l’originario e naturale desiderio “buono”, stravolto dai desideri “malvagi”, indotti successivamente da una società “cattiva”.

Fin qui la posizione di Gindro sulla sessualità si assesta intorno a tematiche di ordine politico ed etico: il piacere non è solo una dimensione individuale e privata, bensì una dimensione relazionale e pubblica, sin da subito. Ma nell’impianto metapsicologico che sottende questa posizione è già presente un’indicazione precisa: la sessualità è relazione. Ogni relazione sessuale è una relazione ed ogni relazione è anche una relazione sessuale. Il desiderio, la pulsione e la sessualità, si realizzano, sin da subito, nel loro dirigersi verso la relazione con l’altro. Dunque il principio di piacere non può essere disgiunto dal principio di realtà, poiché l’altro costituisce, fin da subito, il polo della dimensione relazionale dell’esistenza. È qui che si pone lo snodo fondamentale del distacco da Freud e, insieme, del recupero delle geniali intuizioni del Maestro viennese.

La costruzione dell’impianto metapsicologico di Gindro prende infatti le mosse dalla revisione critica del concetto freudiano di narcisismo primario, associato all’idea di “principio del Nirvana”[16]. Il piacere, per definizione, non è mai autoerotico. Il narcisismo primario è una condizione impossibile, non già perché moralmente condannabile, bensì perché incompatibile con la struttura stessa della relazione, costitutiva dell’essere umano. Il narcisismo è perciò solo secondario e rappresenta un gesto essenzialmente difensivo.

Il desiderio, il piacere, la pulsione esistono come direzioni, sono una direzione e si realizzano nella relazione con l’altro. Se questa concezione del piacere – consentitemi l’espressione – come fatto sempre pubblico e mai privato comporta immediatamente una conseguenza di ordine etico, essa ha altresì un significato strutturale, poiché è chiaro che nel suo dirigersi verso … il desiderio può esser contraddetto, il piacere negato, la pulsione inibita. Come in effetti sempre accade, inevitabilmente, pur se non necessariamente. Ed ecco che, di fronte alla frustrazione (o all’eventualità della frustrazione) sorgono le difese. Difese dalla frustrazione, che consistono nel tentativo di distaccarsi dal rapporto con l’altro. Dunque difese dall’altro e dalla relazione. Tentativi paradossali, che “pervertono” il versus del desiderio (il suo dirigersi verso l’altro) ed il senso “originario” della relazione. Due i meccanismi difensivi e perversi attorno a cui si struttura lo sviluppo della psiche umana: il narcisismo (in cui l’Io si difende dalla frustrazione fuggendo l’altro, negandone la presenza e ripiegando su una grottesca ipertrofia di sé stesso) ed il sadomasochismo (in cui l’Io si difende dalla frustrazione tentando di appropriarsi dell’altro e facendone l’oggetto di sofferenze inflitte o subite). Difese fondamentali e, al tempo stesso, perversioni fondamentali, che sono presenti in ogni relazione, in quanto vengono a costituire le due modalità “strutturali” di affrontare la relazione sessuale e la relazione tout court.

In questa luce, la presenza della perversione – così intesa – appare come una sorta di limite costitutivo dell’esistenza umana. Narcisismo e sadomasochismo sono gli atteggiamenti fondamentali in cui il piacere della relazione si traveste, si stravolge e si disorienta. Sarà mai possibile superare questa condizione e questa paura? Esiste la possibilità di un rapporto che sia sessuale e felice? La risposta risiede in quel rapporto “erotico” a cui Gindro accenna, che non teme la frustrazione e va esente da forme di fuga ed aggressione nei confronti dell’altro.

Certamente questa possibilità esiste ed è anche l’oggetto ed il fine della ricerca e della clinica psicoanalitica (il cui fattore comune resta, beninteso, l’attenzione alle dinamiche inconsce). Tuttavia, in quanto possibilità, il rapporto erotico non è già dato (né come dato naturale, né come dato biologico, sociale o culturale) ma va per l’appunto cercato e costruito, pur se nella concretezza di ogni vicenda individuale, anche storicamente determinata.

Siffatta impostazione ci induce implicitamente a leggere la perversione sessuale alla stregua di un aspetto intrinseco a qualsiasi espressione della sessualità umana e, per estensione, a qualsiasi manifestazione dell’agire umano. Tutte sono leggibili attraverso le varie declinazioni delle categorie fondamentali (strutturali) del narcisismo e del sadomasochismo [17]. Attenzione! In base ad un criterio che riguarda l’analisi delle dinamiche psichiche, dunque a prescindere dal pur necessario e pienamente compatibile riguardo alla dimensione etica della questione in oggetto.

Il catalogo delle perversioni può esistere o no. La sua validità resta descrittiva e non ha valore sostanziale. Infatti, tutte le condotte portano il segno della perversione, pur se alcune possono apparire più normali di altre (in termini puramente “gaussiani”) a seconda delle epoche storiche, dei contesti sociali e delle culture, oppure in tutte le epoche storiche, in tutti i contesti sociali ed in tutte le culture. Il cuore di questa posizione risiede nel mettere in primo piano il tema della cura, che parte dall’analisi e dalla comprensione delle dinamiche inconsce sempre sottese ai comportamenti, alle fantasie, ai desideri. Dunque: tutto è curabile e tutto è meritevole di cura, laddove sussistano i presupposti che la rendono possibile, cioè il consenso dell’analizzando e la disponibilità dell’analista: la funzione di “ospitalità” dell’analisi [18]. E tutto è curabile e meritevole di cura, a prescindere dal politically correct e dal mutare del sentiment storico, sociale e culturale nei confronti della perversione.

La lucidità di quest’approccio, ancorché estremamente problematico, può consentire di tenere la bussola di un agire clinico sereno. Ciò non toglie che, ferma restando la base metapsicologica, non si può non provare un comprensibile e “sano” disorientamento nell’ascoltare – seduti sulla poltrona dell’analista – narrazioni che parlano di manifestazioni e condotte fortemente discordanti dal comune sentire in materia di piacere sessuale. Fin qui, la disponibilità dell’analista a tener fede al suo mandato si può giocare sul piano dell’analisi del cosiddetto “controtransfert”.

Ma, al di là di quest’approccio “ecumenico”, che si fonda sul significato universale del “curare”, molte fenomenologie sollevano inevitabilmente il problema del “normare”. Parlo delle condotte in palese contrasto con la legge, l’etica ed il principio irrinunciabile di tutelare il diritto di tutti, nel rispetto del diritto dei più deboli: necrofilìa, pedofilìa, pratiche sadomasochiste imposte a soggetto non consenziente, zoofilìa, solo per restare nell’ambito delle descrizioni fenomenologiche (cataloghi) delle perversioni sessuali. Qui il principio del “curare” sembra dover rinunciare al suo statuto di “neutralità” dell’ascolto (subordinato alle sole variabili interne all’accettazione reciproca del setting analitico) per venire invece a patto con le esigenze imposte dal controllo sociale. Sappiamo che il grado di “diagnosticabilità” legale e sociale di tali condotte va interpretata anche alla luce dei sentiment dell’opinione pubblica e dell’impatto dei mezzi di comunicazione di massa sulla loro “costruzione”, nelle varie culture e nelle varie epoche storiche. Se di fronte a questi fenomeni la funzione di “ospitalità” dell’analisi resta conservata ai fini della dimensione del “curare”, sul versante del “normare” si impone il principio per cui laddove l’altro sia sempre considerato come fine e mai come mezzo, in alcuni casi il fine può giustificare i mezzi! Questione da valutare con estrema attenzione.

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NOTE

[1] Il termine “problematizzare” si deve a Michel Foucault, che lo utilizza per alludere ad un’operazione di ri-orientamento di un punto di vista consolidato su un qualsiasi campo dell’esperienza umana. Quest’operazione non implica una rinuncia della possibilità di chiarire e spiegare, né pregiudica questa possibilità, bensì serve ad ampliarne le prospettive.

[2] Dico “tradizionalmente intesa” per significare quella forma di riproduzione della specie attraverso il coito eterosessuale fecondo, che da tempo non è più l’unica modalità riproduttiva, sia per la specie umana, sia – soprattutto – per altre specie animali.

[3] In merito all’interdipendenza tra dimensione personale e dimensione sociale dell’individuo, senza scomodare la nozione complessa di “inconscio sociale” proposta da Sandro Gindro, basti ricordare lo stesso Freud: «… tutte le relazioni finora divenute di materia precipua della ricerca psicoanalitica, possono legittimamente venir considerate alla stregua di fenomeni sociali … » (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 1921) o l’apporto di Wilfred R. Bion, basato sull’idea che l’essere umano è un animale gregario, pertanto suscettibile all’influsso delle dinamiche arcaiche dei gruppi. È chiaro che lo “sviluppo” della sessualità è suscettibile all’influenza di determinanti di ordine sociale e culturale, oppure legate alla storia personale del soggetto. Nonostante la piena consapevolezza di tale interdipendenza, appare altresì chiaro che Freud mira ad individuare – a buon diritto – gli assetti “invarianti”, al di là delle contingenze individuali, sociali e culturali. In maniera analoga a quanto accade nel caso della “universalizzazione” del significato “strutturale” del divieto dell’incesto, ad opera di Jaques Lacan e Claude Levi-Strauss.

[4] Appare abbastanza condivisa la convinzione che oggi non è più il caso di essere rigidi nei confronti dell’omosessualità: essa non va “curata per forza” (come accadeva un tempo) e risulta persino compatibile con l’analisi didattica, che abilita all’esercizio della psicoanalisi. Resta tuttavia una condotta che si discosta da quello sviluppo della sessualità che la psicoanalisi continua a pensare e definire “normale”. Ancorché tollerata e protetta da qualsiasi discriminazione, la scelta omosessuale è comunque la scelta di un individuo che – per via della sua costituzione o degli accadimenti verificatisi nel corso della sua storia personale – ha incontrato alcuni “intoppi”, tali da impedirgli di portare a compimento il programma “ideale” di sviluppo verso la sessualità adulta e normale (una pulsione geneticamente molto intensa, una fissazione forte ad una fase e ad una scelta d’oggetto, una particolare configurazione della dinamica edipica, una difficoltà insuperabile a risolvere in altro modo il tema della castrazione).

[5] Sorta di allegorie tratte dall’allor giovane scienza ed arte della fotografia.

[6] I contenuti psichici appartenenti al patrimonio filogenetico, che si intersecano con l’elaborazione dell’esperienza unica ed irriducibile, che ogni individuo effettua nel corso della propria storia personale.

[7] Posso a questo proposito ricordare, ad esempio: Morris N. Eagle, La psicoanalisi contemporanea, Laterza, Bari 1988 e, nell’ambiente italiano, Paolo Migone, Terapia psicoanalitica. Seminari, Franco Angeli, Milano 1995.

[8] Per chiarirne il senso e l’estensione si può dire che tale domanda si riferisce sia all’Altro inteso come l’inconscio (in accordo con la prospettiva lacaniana) sia all’Altro inteso come “Tu” (il termine intrinseco alla struttura della relazione e presupposto indispensabile all’esistenza stessa della pulsione, di cui dà conferma il fatto per cui la presenza di un “Tu” è rinvenibile anche nei casi estremi di autismo, che altrimenti non sarebbero vitali). Come a dire che – in accordo con Gindro – l’inconscio abita ad un tempo sia la realtà psichica “interna” al soggetto, sia lo spazio relazionale tra l’Io ed il Tu. Per meglio dire: l’inconscio significa la dimensione in cui si colloca l’esperienza sia individuale (intrasoggettiva) sia relazionale (intersoggettiva): non solo un “contenuto” (interno all’individuo) ma un “contenitore” delle dinamiche individuali e relazionali (Il ventre del padre, 1985 e Le ali d’oro di éros, 1994).

[9] Tra gli autori che hanno sviluppato questo concetto, posso citare Paul-Claude Recamier (Incesto ed incestuale, 1995) che parla di perversioni narcisistiche, in cui l’oggetto è trattato come utensile piuttosto che come persona. Sul tema della squalifica dell’altro hanno recentemente posto l’accento Sandra Filippini (2005, Perverse relationships: the perspective of the perpetrator, in “International Journal of Psychoanalysis”, 86, 3, pp. 755-774) e Maria Ponsi, che descrivono la perversione come trasformazione della relazione oggettuale in relazione di potere, basata sull’uso dell’altro a proprio piacere, corrompendo la relazione per ottenerne il controllo. Parimenti, Sergio Benvenuto (Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi, 2005) considera perverso ogni atto in grado di condurre al piacere sessuale, in cui l’altro compare solo come “mezzo” e non come “fine”. Il discorso di questi autori trova inoltre supporto nelle formulazioni di numerosi altri studiosi, che mettono sostanzialmente in luce l’intervento nella psicodinamica delle perversioni di due dispositivi mentali fondamentali: l’aspetto narcisistico della perversione (secondo una linea di pensiero che comprende, ad esempio, i contributi di Herbert Rosenfeld ed Otto Kernrberg) e l’aspetto sadomasochistico della perversione (secondo una linea di pensiero che comprende, ad esempio, i contributi di Andrè Green e Robert Stoller).

[10] Come sostiene Benvenuto: «Il perverso è, fondamentalmente, in lotta con gli altri, la perversione è la medicina di un dolore di cui ha perso la memoria, ma che continua ad esigere l’atto perverso per medicarsi» (Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi, 2005). Allo stesso modo, altri autori pensano all’anoressia mentale, nel periodo della pubertà, come tentativo di soluzione perversa delle angosce relative alla sessualità ed alla separazione, che emergono nell’infanzia. Ancora per Racamier, lo sforzo messo in atto dalla condotta perversa mira ad avere dentro di sé nessuna o pochissima sofferenza personale. Anche da qui le considerazioni relative alla funzione del lavoro analitico che, nel caso dell’analisi con analizzandi perversi, appare accostabile al lavoro del lutto (capacità di elaborare il lutto e tollerare i sentimenti di colpa).

[11] Il tentativo di reificare lo statuto dell’Altro, tenta di annullare la struttura relazionale dell’esistenza ed in ciò parla di una difesa. Tale difesa comporta il ripiegamento verso un “surrogato” del piacere, che in quanto tale è perverso (ancorché piacevole e ricercato). L’Altro tuttavia continua ad essere presente, altrimenti anche l’Io cesserebbe di esistere.

[12] S’è già ricordato che le perversioni si presentano all’osservazione clinica come strutture complesse ed altamente “differenziate”, in cui è generalmente soddisfatta la “determinante” connessa al “funzionamento” genitale. Come più avanti specificato, in alcuni contesti l’analista “vede” soggetti già “diagnosticati” come perversi (è il caso di quanti operano nei servizi pubblici). In altri contesti (l’attività di libero professionista) la diagnosi di perversione si costruisce in base all’ascolto dell’analizzando, da parte dell’analista. In gran parte di entrambi i casi, il tratto “perverso”, dal punto di vista relazionale, appare pienamente compatibile con lo sviluppo sessuale “normale” del soggetto, considerato dal punto di vista pulsionale. Infatti, nel “vissuto” di questi soggetti la condotta perversa è spesso compatibile con una vita coniugale o simil-coniugale. Cos’è dunque perverso? Il comportamento atipico del soggetto (rapporti omosessuali o con transessuali, piaceri sadomasochistici, coprofilìa, zoofilìa, necrofilìa, frotteurismo, gerontofilìa, internet chat e quant’altro) oppure il comportamento tipico di tale soggetto (la vita coniugale o simil-coniugale, ancorché segno del raggiungimento del primato genitale previa la risoluzione della dinamica edipica) o, ancora, com’è più probabile, entrambi i comportamenti sopra descritti? È questa la domanda che credo si imponga oggi allo psicoanalista clinico e che costituisce perciò l’oggetto della nostra indagine.

[13] È sempre stupefacente notare – non senza un elevato grado di indignazione – che si usa definire “amante” l’oggetto peccaminoso o sconveniente di una relazione extraconiugale. Se è vero che l’inconscio si rivela attraverso il linguaggio, non può non risultare significativo il fatto per cui si tenda a riservare la connotazione di amante (colui che ci ama e colui che amiamo) ad un soggetto che introduce – per molti versi paradossalmente – un elemento di disordine nella dinamica sociale dell’amore. Sin da Platone ed in tutte le radici della cultura occidentale, rinveniamo infatti nella condizione del rapporto tra amante ed amato il pieno riconoscimento dello statuto dell’altro!

[14] Intesa come processo di costruzione sociale, oltre che come fatto sociale, che rispecchia semplicemente una corretta descrizione della realtà.

[15] In termini metafisici e metapsicologici, la dimensione enigmatica del desiderio porta il segno della nostalgia: quell’éros da cui la pulsione nasce e verso cui la pulsione tende, nel suo dirigersi verso … ma questo discorso ci porterebbe ora lontano.

[16] In rapporto al tema di quale sia la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo, lo storico Teopompo (nella versione tramandata da Eliano) riporta il seguente racconto del saggio Sileno al re Mida che lo interrogava. Il riferimento del satiro è a un luogo favoloso ed ignoto agli uomini, chiamato Anostos, cioè il luogo senza ritorno, solcato da due fiumi, il Dolore (Lype) ed il Piacere (Hedoné) le cui rive sono contornate da alberi grandi come platani. I frutti prodotti dagli alberi cresciuti sulle rive del Dolore sono tali da indurre in coloro che se ne cibano un pianto irrefrenabile, fino a condurli a morte tra le lacrime, mentre dagli alberi posti ai margini del Piacere provengono frutti che liberano da ogni passione l’animo di coloro che ne mangiano. Chi li assaggia smette di desiderare e si dimentica di ciò che ama, inizia poi a ringiovanire e poco alla volta ripercorre le età precedenti già trascorse, fino a ridiventare bambino, neonato ed infine si estingue completamente.

[17] Tenendo presente che entrambi i meccanismi entrano costantemente in gioco, anche alternativamente, pur se è sempre possibile individuare la prevalenza dell’uno o dell’altro. Le configurazioni strutturalmente più pericolose (per l’equilibrio psichico del soggetto) sono determinate dal “sovrapporsi” dei due meccanismi: laddove dinamiche narcisistiche e sadomasochistiche sono contemporaneamente e massivamente in atto, la struttura relazionale dell’esistenza è profondamente compromessa e si profila concretamente un elevato rischio di frammentazione del soggetto, talvolta irreversibile.

[18] Con esplicito riferimento all’incontro di Odisseo con i Feaci, di cui i Libri V e VI dell’Odissea di Omero.

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