II – IL PROFILO DI SALUTE MENTALE DEI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI

II – IL PROFILO DI SALUTE MENTALE DEI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI

Maxima Libertas, Anna Maria Petta
Associazione Crossing Dialogues, Roma

 

Introduzione

Occuparsi di questo tema rende necessarie due brevi premesse.

Primo, rispetto alla popolazione immigrata in Italia in tempi più o meno recenti, quella dei richiedenti asilo e dei rifugiati è una sottopopolazione particolare. In altre parole, esiste un vasto numero di stranieri soggiornanti a vario titolo in Italia. Questo è un fenomeno strutturale e da qualche anno stabilizzato. Poco più dell’8% della popolazione italiana è costituito da persone di origine straniera, e ciò vuol dire che, considerata la distribuzione ineguale sul territorio, in alcune zone si arriva anche al 15%.

Dal punto di vista della salute mentale, tutti i migranti possono avere:

a) una prima fase di Stress da Transculturazione. Qualcuno ha coniato il termine Sindrome di Ulisse[1] per la sofferenza post-migratoria in fase di adattamento alla nuova società;

b) tutti soffrono in modo più o meno intenso della condizione di “doppia assenza”, che non è un disturbo mentale ma una condizione identitaria che può costituire un fattore di arricchimento dovuto all’appartenenza ma anche di vulnerabilità psicologica.[2]

c) tutti possono essere stati oggetto di discriminazione, a maggior ragione negli ultimi anni in cui l’approccio tradizionalmente molto tollerante e aperto che caratterizzava la popolazione italiana si è parzialmente modificato per campagne d’odio spesso con finalità politiche;

d) tutti possono avere difficoltà all’accesso alle cure e alla presa in carico per problematiche linguistiche e/o culturali;

e) molti possono avere difficoltà all’accesso alle cure e alla presa in carico per problematiche burocratiche o per l’impossibilità di sostenere i costi delle terapie, etc.

Rispetto a questa popolazione più generale, i richiedenti asilo e rifugiati costituiscono numeri decisamente inferiori (si stima circa lo 0,31% della popolazione italiana), quindi in teoria più che gestibili con un minimo di programmazione. Tuttavia, da un lato una programmazione non sufficiente a cui hanno provato a dare un impulso varie linee guida ministeriali e regionali, ad oggi con risultati ancora insoddisfacenti, dall’altro lato bisogni di salute specifici e complessità clinico-terapeutiche, rendono questa popolazione degna di un focus particolare.

La seconda premessa è necessaria rispetto all’approccio culturale in salute mentale. Visti i numeri, è probabile che a regime un paziente su dieci che acceda ai servizi di salute mentale sia di origine straniera (in diverse realtà è già così). Stando così le cose, è impensabile creare centri specificamente etnopsichiatrici per tutti, per cui diventa necessario che tutti i servizi acquisiscano le competenze di base per affinare la propria sensibilità culturale e per utilizzare adeguatamente l’apporto dei mediatori culturali, in modo da poter dare risposte territoriali adeguate. Rispetto a questo scenario generale, come vedremo i richiedenti asilo e rifugiati possono avere esigenze sanitarie più specifiche e pertanto per loro possono essere organizzati percorsi ed equipe dedicati. In questo caso, visti i numeri inferiori, si può anche pensare di accentrare le competenze in un servizio per ogni ASL, a meno che l’estensione territoriale non sia tale da compromettere la fruizione del servizio a persone che abitano in posti distanti dalla struttura.

Fatte queste doverose premesse, la prima domanda da porsi è: di cosa soffrono i richiedenti asilo ed i rifugiati? Oltre a quanto riportato sopra, ci sono condizioni più specifiche?

 

Il profilo di salute mentale dei richiedenti asilo e rifugiati

I dati epidemiologici disponibili su questo argomento sono influenzati da vari fattori. Innanzitutto, dove è stata fatta l’indagine? Una cosa è farla in un contesto clinico, dove accede un’utenza già preselezionata dal bisogno sanitario, un’altra cosa è farla in un centro di accoglienza piuttosto che nella popolazione generale, altra cosa ancora è farlo tra coloro che sono finiti a vivere per strada.

Poi, in che periodo? I quadri psicopatologici cambiano nel tempo, per cui una cosa è fare l’indagine allo sbarco, altra è dopo sei mesi o anni.

Altra questione è: con quali strumenti è stata effettuata l’indagine? Perché a seconda se la diagnosi sia stata fatta in modo clinico, con interviste più o meno strutturate, con questionari autosomministrati, etc., cambia il profilo sanitario e di conseguenza i numeri dei casi positivi divergono.

Infine, occorre considerare la tipologia “legale”. I rifugiati sono i titolari di protezione internazionale, ovvero coloro che hanno ricevuto parere positivo dalla commissione territoriale (o, in caso di ricorso, dal tribunale) circa la loro domanda d’asilo (usualmente rifugiati veri e propri e titolari di protezione sussidiaria vengono accorpati). Tutt’altra questione è invece quella dei richiedenti asilo, perché questa è una categoria estremamente eterogenea. Essa include: a) coloro che hanno fatto domanda d’asilo e aspettano la commissione territoriale; b) coloro che sono stati diniegati in commissione ma attendono l’esito del ricorso; c) coloro che sono stati “dublinati”, ovvero hanno fatto la richiesta d’asilo in un altro paese europeo e lì si sono accorti che erano entrati in Europa attraverso l’Italia, e quindi per competenza ci vengono mandati indietro; d) ultimamente anche quelle persone che, entrate dai Balcani o da altre rotte, hanno fatto richiesta in un paese europeo, lì sono state diniegate e siccome temevano che li deportassero nei paesi di provenienza hanno deciso di venire in Italia e riprovare qui a fare una nuova domanda, sperando che il nostro paese sia più “morbido”. La tipologia è meramente legale-amministrativa, ma dietro queste differenze ci sono tortuosi percorsi di vita e dunque varie reazioni psicologiche che non possono non essere rilevanti per il risultante profilo di salute mentale.

Ciò detto, non tutte queste differenze sono state considerate nei report scientifici, per cui vediamo cosa effettivamente viene riportato, privilegiando gli studi sulla popolazione presente in Italia.

In generale si può dire che la letteratura è concorde nel ritenere che i disturbi mentali più frequenti nei rifugiati e richiedenti asilo siano di tipo reattivo, ovvero il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), la Depressione Reattiva, le Sindromi Ansiose e da Disadattamento. Altri sintomi sono spesso secondari al disturbo reattivo di base (ad es. abuso di sostanze come tentativo di gestione dei sintomi più disturbanti, somatizzazioni e in particolare cefalee tensive secondarie a stress, etc.). Nello specifico, il PTSD è il disturbo di solito più frequente, riscontrato già nelle prime settimane dopo lo sbarco (Crepet et al., 2017). In questo studio la sua prevalenza è del 31% (seguito da Depressione, 20%, e Disturbi d’Ansia, 11%). In realtà, però, questo è un dato con ogni probabilità sovrastimato, perché riportato sui 385 soggetti che accettano di sottoporsi a una valutazione psicologica, mentre la popolazione di partenza era di 668 persone che avevano partecipato a gruppi psicoeducazionali (a loro volta una sottopopolazione degli ospiti dei centri, il cui numero non era specificato nell’articolo). I dati sui centri di accoglienza in una fase più avanzata ci dicono che ha un PTSD il 40% di coloro che hanno una sofferenza psicologica, che sono il 36% del campione (Nosè et al., 2018). Quindi, in questo studio effettuato sui centri SPRAR (gli attuali SIPROIMI, ma in una fase in cui tra gli utenti c’erano anche richiedenti asilo e non solo persone già titolari di protezione) la prevalenza del PTSD sul totale degli ospiti testati si attesterebbe sul 14,4%, dunque più bassa rispetto a Crepet et al. (2017). In un altro studio, che ha il vantaggio di valutare sia i CAS che gli SPRAR ma lo svantaggio di usare una metodologia indiretta, la prevalenza è ancora più bassa. In questo caso, una diagnosi di PTSD era stata fatta al 4,53% degli ospiti, più frequentemente tra quelli dei CAS che degli SPRAR (5,16 vs 3,97%), seguita dalle diagnosi di Disturbo dell’Adattamento e Disturbi dell’Umore (Petta, 2019). Qui è probabile che il dato fosse sottostimato in quanto una parte dell’utenza potrebbe essere sfuggita alla formalizzazione diagnostica, non essendo stata valutata dal punto di vista psicologico. Comunque sia, nella popolazione dei richiedenti asilo e rifugiati si può asserire con buona affidabilità che i disturbi sono di tipo reattivo (dato concorde tra gli studi) e che la prevalenza del PTSD, che è il disturbo più frequente (anche questo è un dato concorde) si attesti tra il 5 ed il 30% a seconda della popolazione studiata e della metodologia di ricerca. Siamo insomma ben lontano da un’epidemia, però sono persone che stanno male e la cui sintomatologia interferisce non poco nel percorso di adattamento alla società ospitante, per cui vanno considerate con grande attenzione.

Rispetto agli altri fenomeni psicopatologici più frequentemente riportati in questa popolazione, un dato da sottolineare è quello delle dipendenze, soprattutto da alcool, cannabis e farmaci. Su questo non ci sono molti dati epidemiologici ma è esperienza abbastanza concorde degli operatori sul campo che siano problematiche frequenti, che tendono ad aumentare quanto più le persone si trovano in uno stato di marginalizzazione (massimo tra le persone senza dimora). Si ritiene che una quota di questi comportamenti di abuso sia da considerarsi come un tentativo, in sé ancora più problematico del problema da risolvere, di gestire i sintomi più disturbanti, soprattutto l’iperarousal e l’insonnia, tipici dei pazienti traumatizzati così come delle persone che rimuginano circa i loro problemi attuali di disadattamento sociale.

Rispetto all’espressione somatica della sofferenza mentale, le cosiddette somatizzazioni, varie ricerche (ad es. Aragona et al., 2011 e 2012a) mostrano che esse sono estremamente frequenti: almeno un quarto dei pazienti (25,6%) visitati in servizi di medicina di base dedicati ai migranti presenta una sindrome da somatizzazione, con conseguenti importanti ricadute per la terapia. Ad esempio, scambiare una somatizzazione per un dolore infiammatorio comporta la prescrizione inappropriata di antinfiammatori, con rischi di cronicizzazione e di possibili danni iatrogeni. Dall’altro lato, ed è questo il dato più rilevante in questa sede, i migranti con PTSD hanno più somatizzazioni, quasi tutti i sintomi di PTSD sono più frequenti nei somatizzatori, e all’aumentare del numero di sintomi post-traumatici aumenta significativamente il rischio di avere una sindrome da somatizzazione. Le somatizzazioni sono state interpretate come un sintomo sentinella di una possibile patologia post-traumatica nascosta: la persona traumatizzata può non parlare della sua sofferenza post-traumatica, la quale rimane sostanzialmente invisibile, mentre può richiedere un aiuto per i sintomi che esperisce nel corpo. È allora importante che i medici, così come gli operatori che si occupano di accoglienza e assistenza, siano preparati a cogliere nelle somatizzazioni la spia di una possibile violenza subita.

Un altro ambito di grande interesse legato alla sintomatologia post-traumatica, e tipico di richiedenti asilo e rifugiati, riguarda le funzioni cognitive. Infatti, l’aver subito traumi intenzionali importanti comporta problematiche a livello di concentrazione e memoria, di fissazione ma anche di rievocazione di ricordi autobiografici (cfr. su quest’ultimo punto Petta et al., 2018). In particolare, nei richiedenti asilo e rifugiati politici con Disturbo da Stress Post-Traumatico e depressione è stata rilevata una difficoltà ad accedere a ricordi specifici della propria vita (Graham et al., 2014). Questo fenomeno è definito come Overgeneral Memory, esso può derivare dall’interruzioni del processo di recupero della traccia mnesica, in cui la ricerca viene troncata a livello generale senza che si verifichi l’accesso a memorie più specifiche. Un ruolo centrale può essere determinato da ruminazioni e quindi anche da pensieri intrusivi, da deficit di codifica dell’informazione, dall’evitamento di emozioni negative correlate ad eventi traumatici o ancora da problematiche di controllo esecutivo. Questi dati sono confermati anche da studi precedenti su richiedenti asilo e su altri gruppi di pazienti con PTSD (Moradi et al., 2008; Lagarde et al., 2009; Koso et al., 2012).

Un ulteriore problema a carico della memoria autobiografica è anche la coerenza della traccia mnesica riportata a distanza di un certo arco temporale. Herlihy et al. (2002) hanno rilevato la presenza di maggiore discrepanza soprattutto nei dettagli periferici delle memorie autobiografiche di richiedenti asilo intervistati sul ricordo di due eventi, uno traumatico e l’altro non traumatico.

Infine, anche il dominio delle funzioni esecutive è stato indagato in relazione a sintomi post-traumatici e da analisi della letteratura scientifica emergono frequentemente associazioni negative tra PTSD e funzioni esecutive (Stein et al., 2002; Kanagaratnam & Asbjornsen, 2007; Leskin & White, 2007; Woon et al., 2017). Nello specifico Ainamani et al. (2017) hanno rilevato, in richiedenti asilo e rifugiati politici, la presenza di una correlazione negativa tra gravità sintomatologica post-traumatica e performance in test valutanti le funzioni esecutive in un gruppo di rifugiati congolesi, in particolare nelle donne. Un ulteriore studio ha inoltre segnalato difficoltà in numerosi domini cognitivi: problemi di ragionamento astratto e scarsa flessibilità cognitiva, lentezza nell’esecuzione di compiti, difficoltà di attenzione (Kiaris et al., 2020). Nello studio di Nosè et al. (2018) i problemi di concentrazione emergono tra i sintomi più frequenti tra gli ospiti degli SPRAR (nel 22% delle persone accolte, ovvero nel 60% di quelli che riportano difficoltà psicologiche), mentre il report di Petta (2019) segnala difficoltà nell’attenzione, nelle capacità di apprendimento e nella pianificazione rispettivamente nel 14,8, 12,6 e 10,1% degli ospiti di CAS e SPRAR.

In generale, lo studio del funzionamento cognitivo richiede una riflessione sulla validità culturale degli strumenti usati, per cui va considerato come preliminare. Tuttavia poiché una compromissione del funzionamento cognitivo della persona ha un impatto anche sul funzionamento psico-sociale e quindi a catena sull’integrazione nel paese ospite, resta un piano da considerare con attenzione nella valutazione delle possibili vulnerabilità.

Infine, una finestra a parte va aperta sulla psicosi. Occorre dire da subito che c’è concordanza tra i vari rilevamenti epidemiologici che i tassi di psicosi siano bassi in termini assoluti, anche se essere giovane migrante in difficoltà socioeconomica significa mettere assieme tre fattori di rischio che aumentano il rischio relativo di incidenza di psicosi (Lasalvia et al., 2014). Tuttavia, anche se i tassi appaiono bassi in numeri assoluti, un dato interessante emerge da un recente studio sui tassi di ricovero psichiatrico. Infatti, in Italia i tassi di ricovero per patologie psichiatriche tra gli stranieri erano tradizionalmente più bassi di quelli tra gli italiani, e questa dinamica è rimasta invariata anche negli ultimi anni, almeno per quanto riguarda i migranti in generale. Se invece si seleziona la popolazione dei giovani maschi provenienti dai paesi da cui attualmente arrivano i richiedenti asilo, si vede che successivamente al 2011 la curva dei tassi di questo sottogruppo si è impennata superando di molto sia quella degli altri migranti, sia quella degli italiani (Aragona et al., 2020). In sostanza, è come se in questa popolazione vi fosse una vulnerabilità maggiore che porta più spesso le persone a ricoverarsi, e ciò coincide temporalmente con la disgregazione dello stato libico, con il conseguente caos che ha portato a un aumento delle partenze (anche di persone che non avevano preventivato di venire in Europa) e a un aumento delle gravi esperienze traumatiche in quel paese (incarcerazioni, percosse, lavoro forzato, malnutrizione e disidratazione, abusi e violenze fisici e sessuali, torture). La fonte ministeriale da cui quello studio prende i dati (le schede di dimissione ospedaliere) non consente un’analisi più fine in base alla scolarità, all’essere o meno un effettivo richiedente asilo/rifugiato eccetera. Tuttavia, i dati sono sufficienti a suggerire che in quella popolazione qualcosa di nuovo stia avvenendo, che il profilo di salute mentale non sia più buono come quello dei migranti arrivati nelle epoche precedenti, e questo pone una sfida al sistema sanitario nazionale. Suggerimento, questo, confermato anche da un’indagine qualitativa condotta su un campione di operatori sociali e psichiatrici in Italia: “Dalle interviste effettuate sia con il privato sociale con lunga esperienza di trattamento di psicopatologie tra i migranti, sia di psichiatri operanti in strutture pubbliche, è emersa una diversa tipologia del migrante attuale che spesso si presenta con un substrato psichico già compromesso, con una capacità di resilienza ridotta e in assenza di un progetto migratorio chiaro” (Medici Senza Frontiere, 2016).

 

Traumi, difficoltà vitali ed accoglienza

Come visto, gran parte delle problematiche di salute mentale presentate dai richiedenti asilo e rifugiati è di tipo reattivo a situazioni di vita e in particolare a eventi traumatici. In psicotraumatologia si parla di eventi potenzialmente traumatici per riferirsi a quegli eventi che la persona subisce direttamente o di cui è testimone, o di cui viene a conoscenza se riguarda persone della sua stretta cerchia, caratterizzati da “morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale” (American PsychiatricAssociation, 2013). Negli ultimi anni ancor più che in passato, a causa degli stravolgimenti geopolitici in seno a molti paesi africani e asiatici, per i richiedenti protezione internazionale ognuno di questi eventi può essere occorso, ed in più vi è spesso una specificità legata al fatto che nei casi di esposizione a situazioni di violenza, essa sia di tipo intenzionale. Ciò vuol dire che qualcuno ha perpetrato su qualcun altro atti brutali volti a infliggere dolore e/o morte in modo volontario e consapevole. Questo comporta una maggior peculiarità del trauma, definito anche “trauma estremo”: violenze interpersonali ripetute, praticate volontariamente da una persona e/o da un gruppo, in una situazione di privazione della libertà. Spesso i richiedenti asilo e rifugiati sono “migranti forzati”, nel senso che sono stati costretti a lasciare il proprio paese d’origine proprio a causa di eventi che li hanno esposti a esperienze traumatizzanti, per cui il trauma vissuto nel paese di provenienza è un importante fattore nella catena causale che conduce al PTSD che osserviamo in Italia. Tuttavia non tutte le persone esposte ad eventi psicotraumatici sviluppano effettivamente un PTSD, in quanto non c’è una relazione causa-effetto diretta ma sono presenti dei fattori intermedi quali le caratteristiche della persona esposta al trauma, le sue difese psicologiche (resilienza e capacità di coping), le sue appartenenze culturali, familiari e religiose, il modo in cui ha integrato l’evento nella propria esperienza soggettiva e culturale, da cui deriva poi il vissuto di tale esperienza, e il senso che gli ha dato. Inoltre, lo sviluppo di un eventuale PTSD dipende anche dal contesto nel quale l’episodio traumatico è avvenuto e dagli eventi che sono succeduti al trauma. Alcuni di essi possono mitigare gli aspetti traumatizzanti, mentre altri invece costituiscono una catena drammatica, che ne complica ulteriormente gli esiti. Questo ci introduce al concetto di traumatizzazione secondaria, con il quale si intende la riattivazione dell’esperienza traumatica attraverso nuovi eventi. Nel caso dei nostri pazienti, il passaggio in Libia è di grande rilievo, perché fonte di gravi e sistematiche violenze interpersonali, in condizioni di vita estreme. Quasi non c’è donna subsahariana che non sia stata stuprata in Libia, così come non c’è uomo rinchiuso in centri di raccolta, governativi o meno, che non sia stato almeno percosso brutalmente e ripetutamente, fino ad arrivare a torture ed esecuzioni sommarie. E poi c’è l’attraversamento del Mediterraneo, con i naufragi, i blocchi navali, etc., eventi che di nuovo possono avere effetti ritraumatizzanti. Così, si può dire che la maggior parte delle persone arriva in Italia con esperienze traumatogene pregresse (nel proprio paese e/o durante il viaggio), per cui non sorprende che il PTSD sia la reazione psicopatologica più frequente che osserviamo in Italia.

A tutto ciò si sommano le difficoltà che si ritrovano dopo l’arrivo in Europa, quando la loro condizione di vulnerabilità li espone a ulteriori ritraumatizzazioni, per vari motivi come: a) la non sufficiente tutela di alcune parti del sistema di accoglienza (si pensi ad esempio ai migranti ospitati in centri sovraffollati dove è più probabile che avvengano frizioni tra gruppi di ospiti); b) le situazioni traumatiche legate alle nuove barriere interne (si pensi ai migranti, spesso famiglie con anziani e bambini, che ai confini balcanici si sono visti sparare contro pallottole di gomma e lacrimogeni); c) il fatto che una parte delle persone esce dal circuito dell’accoglienza. Ad esempio, i transitanti che si allontanano prima di venire registrati e, in questo momento, i titolari di protezione umanitaria (che rischiano di essere allontanati dai centri per effetto della legge 132 del 2018, finendo per strada e innescando fenomeni di marginalizzazione sociale che rende più probabile l’esposizione a nuovi soprusi ed esperienze traumatizzanti). Questi eventi, oltre ad avere un possibile effetto psicotraumatico intrinseco per la loro gravità (si pensi alle violenze sulle donne vittime di tratta), spesso sono patogeni perché riattivano il vissuto traumatico originario al quale vengono associati. Sono poi da considerare ulteriori difficoltà vitali post-migratorie (noia, discriminazione, scarso accesso ai servizi, lungaggini burocratiche, preoccupazioni per la propria vita e per quella dei familiari, paura dell’espulsione, povertà eccetera). Le ricerche dimostrano che le difficoltà vitali post-migratorie (PMLD) hanno un ruolo patogeno definito. In particolare, il rischio di sviluppare un PTSD nei rifugiati e richiedenti asilo sembra aumentare con una maggiore esposizione a più esperienze di questo tipo, con un aumento di gravità dei sintomi, una resistenza al processo terapeutico e una maggior difficoltà nel processo di integrazione sociale (Aragona et al., 2012b).

Tutto ciò per quanto riguarda il PTSD, ma abbiamo anche visto che tra le reazioni psicopatologiche più frequenti nella popolazione di cui stiamo parlando vi sono disturbi dell’umore (principalmente depressioni reattive) e disturbi dell’adattamento, questi ultimi legati alle difficili condizioni post-migratorie di cui si è appena detto, ma senza che vi sia un quadro post-traumatico: la persona è preoccupata, non dorme perché rimugina sulle cose che lo preoccupano (il permesso di soggiorno, il lavoro, la condizione dei familiari rimasti nel paese d’origine, etc.), lamenta mal di testa, etc. Di nuovo, ridurre le PMLD avrebbe un effetto potente sulla prevenzione di queste problematiche. Infatti, se ridurre il rischio di incorrere in esperienze traumatiche pre-migratorie è complesso, e necessita di un lungo lavoro a livello internazionale contro le diseguaglianze e la conflittualità in molte zone del mondo, i tempi sono decisamente più brevi per intervenire sulle difficoltà di vita post-migratorie. Del resto, un miglioramento del sistema di accoglienza dipende dalla responsabilità diretta del paese ospitante, per cui è facilmente modificabile purché lo si voglia.

Detto ciò, un altro aspetto rilevante che attiene alla fase dell’accoglienza nel paese ospitante è quello relativo ai bisogni di salute. Infatti, nel momento in cui emerge un quadro di sofferenza, diventa importante intercettarlo prontamente perché con un adeguato supporto le cose possono migliorare, evitando ricoveri d’urgenza e/o cronicizzazione. Purtroppo i dati ci dicono che a parte pochi centri specificamente dedicati ai migranti, i servizi di salute mentale non brillano per apertura, tanto che in una indagine nell’8,33% dei centri lo psicologo intervistato riferisce che il paziente viene accompagnato al Centro di Salute Mentale (CSM) da un operatore perché se va da solo viene mandato via senza prendere appuntamento (Petta, 2019). Nello stesso report i CSM hanno punteggi di valutazione bassi (mentre va un po’ meglio per i reparti psichiatrici (SPDC)) ad indici come “disponibilità ed empatia del personale”, “disponibilità di mediatori culturali”, livello di formazione, sia in psicopatologia delle migrazioni che nella gestione delle reazioni post-traumatiche, e “disponibilità alla presa in carico”. Insomma, se è vero che un’accoglienza che metta al centro la relazione creando un ambiente favorevole all’incontro ha già valore terapeutico, perché consente alla persona di recuperare la sua dignità riscoprendosi capace di rapporti interpersonali (Mazzetti e Geraci, 2019), i servizi sanitari e in particolare quelli di salute mentale territoriale devono fare ancora molto in questa direzione.

 

Conclusioni

Dall’analisi di quanto riportato in questo capitolo emerge un quadro complesso di fattori che possono avere un impatto negativo sulla salute mentale di richiedenti asilo e rifugiati politici. È quindi necessario tenerne conto nella relazione terapeutica, considerando il ruolo degli eventi pre-migratori, migratori e delle difficoltà vitali post-migratorie. In primis è necessaria una maggiore sensibilità culturale che possa far fluire il processo terapeutico permettendo al paziente di agganciarsi ad un percorso di cura e di accedere ad esso non solo in casi di emergenza. Altro aspetto rilevante è la necessità di fare prevenzione attraverso interventi mirati come ad esempio fornire supporto nel periodo precedente alla valutazione della commissione territoriale, nonché durante il periodo di attesa. Queste attività favoriscono la prevenzione del disagio psicologico e di eventuali ritraumatizzazioni dovute anche all’inconsapevolezza rispetto all’iter da seguire per la richiesta d’asilo, al non essere preparato alle domande e all’eventuale diniego, etc. Attività che aiutino a dare un senso a questa esperienza spesso spaesante appaiono quindi utili. Infine, su un ulteriore piano, è necessario che queste persone vengano supportate anche nel processo di integrazione nel paese ospite attraverso interventi che favoriscano l’istruzione e l’avviamento professionale.

 

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Note

[1] Greenhalgh (2016), in un report sui contesti della salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), approfondisce la definizione di Sindrome di Ulisse che viene descritta per la prima volta dal Dr. Joseph Achotegui (2015). Essa si manifesta con una combinazione di sintomi fisici e psicologici (es. cefalee, insonnia, ansia, irritabilità). Questa sindrome è definita come una forma estrema di lutto migratorio, i cui sintomi sono conseguenti a fattori di stress estremi, allontanamento forzato, viaggio migratorio, mancanza di obiettivi e fallimento del progetto migratorio, isolamento sociale e difficoltà di adattamento nel paese ospite. Questa condizione tuttavia non è inserita ufficialmente dall’OMS nella classificazione dei disturbi mentali.

[2] Nell’analisi dell’immigrazione algerina in Francia, Abdelmalek Sayad (2002) conia il termine “doppia assenza” per indicare la condizione del migrante che lo rende solo parzialmente assente dal Paese di provenienza e al tempo stesso non pienamente presente nel Paese ospite. Sayad definisce il migrante come “Atopos” come colui che è “fuori luogo, senza luogo” in entrambi i Paesi che ne definiscono la sua non-esistenza da un punto di vista identitario.