Identità di genere in adolescenza. Lo sguardo di Tiresia sul maschio e la femmina

Identità di genere in adolescenza. Lo sguardo di Tiresia sul maschio e la femmina

(di Arturo Casoni)

La riflessione sul genere parte da Tiresia, l’indovino del ciclo mitologico di Edipo, che ha attraversato sia la condizione di maschio sia di femmina, e che viene identificato come supposto sapiente al riguardo. Quindi si propone un panorama di ciò che è stato detto di innovativo sul tema negli ultimi cento anni, da Freud alla Queer Theory, passando per Simone de Beauvoir, il ‘femminismo psicoanalitico’, Lacan. Ciò che emerge è che, se molto è cambiato nella percezione del gender, ancora molto rimane insoluto riguardo agli stereotipi maschio/femmina, alle “gabbie” del genere e ai drammi da esse prodotti. Un cardine per riattivare la riflessione innovativa è – a proposito di ‘complesso di Edipo, momento di costruzione dell’identità di genere specialmente in età adolescenziale – trovare uno spazio teorico a ciò che possiamo definire l’originaria bisessualità dei ruoli genitoriali.

The paper starts from Tiresias, the soothsayer of the myth of Oedipus, who went through both the condition of the male and female, and which is identified as supposed wise in this respect. A view of the topic in the past century is proposed, from Freud to the Queer Theory, going through Simone de Beauvoir, the ‘psychoanalytic feminism’, Lacan . What emerges is that, if a lot has changed in the perception of gender, much remains unsolved stereotypes about male/female, the “cages” of the gender and the tragedies they produce. A key to reactivate an innovative thinking is – about ‘Oedipus complex, time of construction of gender, especially in adolescence – finding a theoretical space in what might be called the original bisexuality of parental roles.

Il conflitto tra i sessi

“Tiresia, quando era un giovane pastore sul monte Cillenio, vide, un giorno, due serpenti che si accoppiavano. Con il suo vincastro uccise la femmina. Per una ragione incomprensibile fu trasformato egli stesso in femmina. Per sette anni visse come una donna, facendo l’amore con i maschi. Un giorno, nuovamente, incontrò due serpenti, avvinti in un amplesso. Questa volta uccise il maschio e ridivenne, immediatamente, uomo. Zeus ed Era, sull’Olimpo, erano immersi in una delle loro interminabili dispute; la questione verteva su quale dei due sessi godesse di più nell’unione sessuale. Tiresia, che aveva vissuto entrambe le esperienze, fu scelto come giudice. Questo il verdetto di Tiresia, che dava ragione a Zeus: «Se l’intensità del piacere amoroso è pari a dieci, una parte la gode il maschio e le altre nove la femmina». Era, umiliata e furente, si vendicò di Tiresia, accecandolo. Zeus non poté opporsi a questo gesto malvagio, ma ricompensò lo sventurato dandogli il potere della divinazione e concedendogli di vivere una vita lunga, pari alla durata di sette generazioni” (Gindro, 1983, pag.1; Kerény, 1981, pag. 106-107).

Questo è l’incipit di un libro di Sandro Gindro del 1983, dal titolo A Tiresia. Il libro raccoglie le sue riflessioni sulla psicoanalisi, centrandosi su ciò che è ritenuto il ‘cuore’ dell’edificio freudiano: il complesso di Edipo e la conseguente collocazione dell’identità dei soggetti tra i generi e le generazioni. Gindro, nel libro, identifica in Tiresia – l’indovino che rivelerà a Edipo il suo destino: uccidere il padre e fare l’amore con la madre – la figura attorno alla quale lavorare per dare nuova linfa al lavoro dello psicoanalista. Quando fu scritto il libro si era in un’epoca storica – tra la fine degli anni ’70 e i primi ’80 – di grande fermento, in cui tra l’altro il femminismo si andava affermando e la soggettività maschile cominciava a mostrare con evidenza le sue ferite identitarie. Le polemiche infuriavano, si aveva l’impressione di essere di fronte a un cambiamento radicale del modo di essere al mondo, e in particolare di esservi da maschio o da femmina. Si era in un’epoca di conflitti nei quali esistevano ancora le ‘classi’ e i ‘sessi’. Sono passati più di trent’anni da allora, ed è giusto chiedersi: che c’è di nuovo?

Ad ascoltare questo frammento del mito di Tiresia si potrebbe pensare che ciò che anima la polemica tra Era e Zeus – e quindi tra la femmina e il maschio – sia l’invidia-gelosia per il godimento dell’altro, dell’altro genere. E che da questa invidia-gelosia origini lo scontro di potere tra il maschio e la femmina. L’indovino Tiresia viene associato da Gindro allo psicoanalista Sigmund Freud, in quanto è colui che dovrà accompagnare il soggetto – che sia Edipo o l’analizzante – verso la possibilità di riconoscersi nell’altro da sé. Non a caso nelle prime righe del libro si fa riferimento a questa alterità fondante che è il maschile/femminile: Tiresia ha conosciuto l’altro da sé, l’altro in sé, ed è chiamato a darne conto nella sua pratica di indovino. Si potrebbe forse dire in termini analitici che, attraverso la frequentazione delle molteplicità del proprio inconscio, ha trovato il modo di intendere se stesso e gli altri. E’ diventato sapiente, o supposto sapiente. Si potrebbe ancora dire che Tiresia è una delle prime figure di ‘transessuale-transgender’ della nostra cultura. E forse è vero che all’analista è sempre fatta domanda, in quel piccolo palcoscenico che è la seduta psicoanalitica, di essere padre e madre, maschio e femmina, di includere e andare oltre i generi, di essere uno ‘schermo bianco’ entro il quale poter collocare le proprie storie e i propri disorientamenti. L’analista Tiresia porta in sé la doppia identità di genere, quella caratteristica che gli storici della medicina delle origini hanno identificato in tutte le figure dei medicine-men, i guaritori appartenenti alle varie culture pre-letterate, ovvero gli sciamani (Voltaggio, 1992).

Una fuga attraverso la storia del genere negli ultimi cento anni

In quel libro Gindro, come era nello stile di quegli anni, stigmatizzava la psicoanalisi come correa di una sorta di disarmo di fronte al confronto, conflitto, scontro, incontro tra i sessi. Nell’augurarsi un ritorno a Freud, la riteneva responsabile di una mancata assunzione della tradizione freudiana, che nei suoi primordi era stata portatrice di sovversioni culturali.

Tentando di raccogliere la sfida, provo a ordinare i pensieri lungo un filo che ci orienti nella riflessione sulla storia del concetto di ‘genere’. L’obiettivo ambizioso è quello di liberare la psicoanalisi dalle convenzioni, dagli stereotipi riguardo al maschile/femminile, per quanto questo sia possibile. Tenterò quindi di toccare alcuni passaggi che hanno caratterizzato la riflessione storica sul genere, selezionando molto, evidenziando alcuni temi che sono coerenti con la mia visione del tema. Sarà un’operazione parziale dunque, e fatta da un maschio.

Possiamo iniziare da una citazione di Sigmund Freud dal Compendio, verso la fine del suo percorso teorico: “Per distinguere il maschile dal femminile ci serviamo di un’equazione palesemente insufficiente di natura empirica e convenzionale. Tutto ciò che è forte e attivo lo chiamiamo maschile, tutto ciò che è debole e passivo femminile. Il dato di una bisessualità rilevabile anche a livello psicologico pesa su tutte le nostre scoperte e ne rende più difficile la descrizione” (Freud, 1938, pag. 615).

Sigmund Freud, con la rivoluzione del pensiero contenuta nei Tre saggi sulla teoria sessuale del 1905 apre la strada della riflessione sulla condizione di maschio/femmina. Se il suo ego di medico borghese afferma le equivalenze maschio-attivo e femmina-passiva e che il coito riproduttivo eterosessuale è il fine ultimo della maturità psicologica, il suo alter ego di pensatore sovversivo dichiara che “ogni persona (…) rivela una combinazione di attività e passività” (Freud, 1905, pag. 905 nota 1). E’ lì, in quel saggio, che ci parla appunto dell’originaria bisessualità dell’essere umano. Freud dice e si contraddice, come è inevitabile che sia di fronte ai misteri dell’essere umano.

Penso comunque che si possa affermare con certezza che, nella cultura occidentale, la psicoanalisi freudiana ha pienamente contribuito alla decostruzione del mito delle identità sessuate, attraverso una loro messa alla luce e in parola. Nel momento in cui Freud esplorava il ruolo maschile/femminile – in particolare all’interno di quella cellula sociale che è la famiglia generativa, mediante quella dialettica dei ruoli che lui definì Complesso di Edipo – quei ruoli stessi iniziavano la loro rarefazione, si consumavano alla luce della messa in evidenza, divenivano modificabili, criticabili. Aver messo in chiaro la funzione paterna e materna ha aperto la crisi del Padre Edipico come ideale normativo, garante della Legge e generatore paranoico di disagio e patologie. L’epilogo di questo processo nella nostra contemporaneità è appunto la sua evaporazione: è svanito al sole della nostra post-modernità. E’ pensabile che Freud sia stato uno degli autori che hanno innescato questo fenomeno, che la psicoanalisi ci abbia “messo lo zampino”.

La mia impressione è che riguardo alla funzione materna/femminile la messa in crisi non ha ancora prodotto degli effetti tangibili nella nostra cultura, e che di questo si deve anche e ancora parlare.

Sta di fatto comunque che le equivalenze maschile = forte-attivo, femminile = debole-passivo sono binomi evaporati nella contemporaneità, che, se hanno avuto una loro efficacia ed efficienza nel nostro passato, non sono più utili per interpretare e comprendere la nostra contemporaneità.

Ma torniamo a Sigmund Freud, al nostro padre generatore di pensiero, e cerchiamo di seguirne gli sviluppi. Già i suoi colleghi contemporanei, come Karen Horney, metteranno in critica la sua – ambigua e ambivalente – visione fallocentrica della femminilità come mancanza di mascolinità. Di fatto la sua riflessione sulle identità sessuali si centra sul maschio e di lì deriva quella della femmina. Non a caso il paradigma clinico che più di ogni altro ha rappresentato il processo di formazione dell’identità sessuata racconta la storia di un maschio – il piccolo Hans – avvolto nei suoi affanni edipici. D’altro canto, questo modo di raccontarsi le origini a partire da un maschio ha una tradizione antichissima, iniziata con la Bibbia e con Adamo e Eva, appunto.

Facendo un salto di una decina di anni dalla conclusione del percorso freudiano, il tema dell’identità sessuale o ‘di genere’ – ma non il termine – torna a rendersi presente nel 1949 con Il secondo sesso di  Simone de Beauvoir.  L’autrice qui afferma che la condizione femminile è l’essenza dell’alterità nella nostra cultura. Donna è colei che non è maschio, un non essere, un nulla. La condizione in cui si trova è il portato del particolare rapporto uomo-donna, storicamente determinato, in cui la donna è l’Altro assoluto. In una sintesi tra esistenzialismo, marxismo e hegelismo identifica l’origine della fenomenologia hegeliana del servo-padrone nella differenza donna-uomo. Per mantenerci aderenti ai fatti della nostra storia recente – che sotto alcuni aspetti ci può apparire come lontanissima dalle descrizioni di Simone – non scordiamoci che soltanto l’anno prima della pubblicazione del libro le donne avevano votato per la prima volta in Francia… Dal nulla che erano cominciavano a esistere come soggetti della polis.

Nel 1955 John Money pubblica un lavoro sperimentale sui bambini ermafroditi (Money et alii, 1955, pag. 301-319), inaugurando una linea di pensiero che considera i concetti di  ‘sessualità’ e ‘genere’ come due categorie formalmente separate e distinte. Il riduzionismo biologico viene destituito del suo valore assoluto riguardo all’identità soggettiva. Lo psichico e il culturale si fanno spazio anche riguardo alla sessualità e alle identità che ne conseguono.

Il termine ‘genere’ (gender) si rende presente in psicoanalisi con Robert Stoller nel 1968 (pag. 42-55). La clinica psicoanalitica si confronta con l’identità di genere come dimensione centrale dell’organizzazione del Sé. La complessità e la molteplicità delle linee evolutive si rende evidente. Stoller teorizza una fase iniziale di “protofemminilità” sia per i maschi sia per le femmine, a partire dal fatto che tutti i bambini si identificano inizialmente con il genere fisico e psichico della madre. Così viene ribaltata la teoria freudiana del monismo fallico e della mascolinità primaria.

Negli anni ’70 e ’80 si afferma il cosiddetto ‘femminismo psicoanalitico’, che con Dorothy Dinnerstein, Nancy Chodorow e Jessica Benjamin concettualizza il genere come un ideale normativo che dà un sesso al corpo e un genere alla mente secondo il principio delle polarità oppositive maschio/femmina: ciascuno è definito da ciò che l’altro non è. In continuità con ciò che aveva scritto Simone de Beauvoir, si afferma che la dimensione binaria del genere serve anche da modello per le altre dicotomie: padrone-schiavo, soggetto-oggetto. La struttura o/o del paradigma di genere diviene la causa di una condizione patogena universale, produttrice di sofferenza e patologie. Un’altra area studiata dalle autrici, riprendendo il concetto di protofemminilità di Stoller, riguarda la ‘matrice’ originaria della funzione materna come organizzatore dell’identità: si è ignorato il fatto ovvio che la prima relazione oggettuale è con il corpo di una donna-madre, che la prima identificazione con l’altro è femminile. Mi risuona spesso alla mente la frase di Dorothy Dinnerstein quando scrive che le donne sono il “primo amore, primo testimone, primo padrone di ogni bambino”. E mi verrebbe da chiederle se quindi anche la relazione servo-padrone di hegeliana memoria ha una doppia direzionalità, ovvero che anche la donna è padrona riguardo ai suoi servi-figli. Ma la questione ci porterebbe lontano.

Jacques Lacan, sempre negli anni ’70 e sempre all’interno della riflessione psicoanalitica, affronta il tema del genere sessuale secondo la categoria del sembiante: non esiste una identità sessuale salda, che riguarda il soggetto come “essere”, non vi è un’istanza fondante, un dato di Natura. Si “fa” l’uomo o la donna, non si è. Lacan parla, a proposito del maschio, della parata fallica: mostrare la potenza di ciò che si ha. Ciò che caratterizza la femmina è il sembiante della mascherata fallica: lei è il fallo potente, è lei l’oggetto che produce il desiderio, l’erezione, la potenza fallica (Lacan, 1971).

Alla fine degli anni ’90 i Cultural Studies e la Queer Theory irrompono con la cosiddetta ‘svolta postmoderna’ riguardo al concetto di gender. La polarità maschio/femmina è di fatto costituita da altre polarità, tra le quali quella eterosessuale/omosessuale. Dalla domanda ‘cosa è il genere?’ si passa a ‘esiste il genere?’. Da “categoria determinata” diviene un “campo di forze” fatto di relazioni complesse tra contrapposizioni e differenze molteplici (Dimen e Godner, 2005). Il problema del gender si emancipa da un’appartenenza quasi univoca alla ‘questione femminile’ e diviene affare irrisolto anche riguardo alla soggettività maschile. In qualche modo, in una sorta di eterno ritorno, si torna al mandato freudiano sull’originaria bisessualità degli esseri umani.

Seguendo i passaggi sintetizzati in questa rapida fuga sul concetto di gender si potrebbe pensare che tutto è stato detto, e che quindi il problema è risolto. Gli infingimenti e le trappole che la nostra cultura aveva ordito riguardo all’inganno delle soggettività sessuate sono state messe alla luce, la possibilità di collocarsi nel proprio universo sociale come soggetti portatori di desideri molteplici è pienamente data. Le due gabbie di maschio e di femmina sono state messe alla luce e così si sono sciolte.

Ma a me così non sembra. Tutto è stato detto, ma le due gabbie continuano a funzionare nonostante alcuni ‘ammodernamenti’.

Cosa cambia nelle gabbie del genere?

Provo ora ad accennare alle trasformazioni socio-culturali intervenute negli ultimi decenni nella cultura e nella società occidentale a proposito dell’essere maschio/femmina, sempre in una forma di sintesi estrema, e sempre in modo molto parziale e funzionale al filo che vado seguendo. I punti che isolo in forma telegrafica sono: emancipazione femminile, pratiche sessuali, identità maschile, omosessualità, famiglia. Accosterò a ogni punto alcuni ‘effetti collaterali’ indesiderati, segnalatori di aspetti difettuali. Più che descrivere i fenomeni, do risalto alle derive.

L’emancipazione femminile è un fenomeno in atto, progressivo e non concluso. Side effect: rischio di ridurre l’emancipazione ad accesso a ruoli e comportamenti utili per la produttività, in una sorta di tendenza alla parità verso il basso. Una “mascolinizzazione” della femmina, direbbe forse qualche femminista che continua a pensare che tutto il buono sia nella femmina e tutto il cattivo nel maschio.

Le pratiche sessuali sono notevolmente cambiate, con aspetti di libertà ‘di azione’: si fa di più (forse?). Side effect: si ha meno desiderio di farlo, si fa perché “così fan tutti”, ma con meno desiderio di farlo. C’è meno il desiderio dell’altro, dell’incontro, della condivisione di corpi e umanità. Le impotenze maschili e le frigidità femminili sono rimaste invariate, o forse sono aumentate. Si ha più paura a farlo, visto che è meno proibito e quindi si è obbligati a farlo. Sono cambiate le pratiche ma non è aumentato lo spazio di libertà del desiderio. Assistiamo a una reificazione delle libertà sessuali e a un consumo delle pratiche conseguenti. Mi verrebbe la voglia di porre un quesito: esistono le frigidità maschili e le impotenze femminili?

La crisi progressiva dell’identità maschile è evidente a tutti. Side effect: cortocircuiti reattivi alla crisi che estremizzano i comportamenti arcaici, proto-maschili, come ad esempio il bullismo (anche femminile) e il c.d. fenomeno degli uxoricidi. Il disorientamento ha prodotto un ritiro del maschio, una sua evaporazione. Vi sono frammenti di riflessione e di pratiche su identità altre, in parte fuori dagli stereotipi.

Si diffonde una minore segretezza dell’omosessualità: non sempre bisogna nascondersi. Side effect: maggiore presenza nel quotidiano, ma mancanza di categorie mentali che diano sostanza alle identità omosessuali (i garanti metapsichici) per dargli una collocazione pacificata. L’omofobia mantiene il suo spazio di inciviltà ma in forme “moderne”, più consone a una cultura “televisiva”.

Le modificazioni intervenute nella struttura della famiglia sono forse il fenomeno più evidente,  luogo e causa di generazione delle trasformazioni sui soggetti. Il ruolo paterno di garante della normatività è scomparso (per fortuna). Side effect: famiglia = madre e figlio/a. La dichiarata “evaporazione” del padre riguarda non solo la funzione genitoriale ma l’identità del maschio: evaporazione del maschio. La madre è sola nel gestire oneri e onori, a rischio di risultare l’unica rea della disfatta di fronte ai figli.

Il nucleo duro dell’Edipo

Tento ora di far ‘calare’ i cambiamenti appena descritti, intervenuti nel funzionamento psichico dei soggetti, entro la materia della psicoanalisi.

La psicoanalisi ha identificato il tempo della formazione psichica nelle prime fasi dello sviluppo infantile, e il suo luogo nelle prime relazioni familiari. E’ lì, in ciò che è stato definito il complesso di Edipo, che il soggetto trova la sua collocazione tra i generi e le generazioni: è lì che il soggetto si costituisce. Il triangolo edipico può essere quindi considerato il fulcro di tutta la ‘macchina’ psicoanalitica. Ma se è quello spazio-tempo a modificarsi lungo gli accadimenti della storia, cosa ne sarà del ‘funzionamento’ della macchina psicoanalitica?

Jacques Derrida, in un libro-dialogo sul presente/futuro del quale la psicoanalisi dovrebbe cogliere il senso, afferma:

“mi domando prima di tutto in che modo (e se) il modello familiare – punto di riferimento imprescindibile e fondante per la teoria psicoanalitica – sarà in grado, trasformandosi, di trasformare a sua volta la psicoanalisi. Per Freud e per i suoi successori, compreso Lacan, la teoria edipica presuppone un modello fisso: l’identità stabile del padre e della madre. E in particolare l’identità di una madre ritenuta insostituibile (…) A un certo punto sarà l’approccio psicoanalitico tipico di questa cultura che dovrà essere caratterizzato da quel movimento stesso che mette in crisi il modello familiare. Questo mutamento della psicoanalisi dovrebbe d’altronde corrispondere a ciò che essa stessa considera come la propria missione essenziale: prendersi cura innanzitutto di ciò che, direttamente o no, riguarda il modello familiare e le sue norme. La psicoanalisi ha voluto sempre essere una psicoanalisi delle famiglie” (Derrida e Roudinesco, 2004, pag. 59).

La psicoanalisi quindi, per ritrovare la vitalità che la ha caratterizzata nel secolo scorso, è chiamata a mettere in discussione se stessa e, in particolare, in seguito alle modificazioni intervenute nella ‘struttura’ delle famiglie, a riconsiderare la sua teorizzazione sulle stesse.

Accogliendo la sfida, Sandro Gindro propone di modificare la nominazione “complesso di Edipo” – ovvero quella dialettica padre/madre/figlio che poteva funzionare nella Vienna secessionista dei primi del secolo scorso e che non è più attuale oggi – con un nuovo nome: “complesso del piccolo Hans”. Ciò che il genio di Freud ci ha consegnato attraverso quel caso clinico ci indica una struttura invariante di romanzo, ma la trama può modificarsi in seguito al modificarsi delle dialettiche, dei ruoli dei personaggi, della conseguente modificazione del significato simbolico che hanno acquisito le ‘maschere’ di papà e mamma. Non più una trama generalizzabile, dal valore metastorico, ma fenomeno contingente, mutevole a seconda della storia[1]. La genialità della narrazione che Sigmund Freud ci ha consegnato ha bisogno, per essere accolta, di essere digerita dalla modernità, fatta calare nelle viscere degli accadimenti sociali, rivitalizzata dal divenire delle trasformazioni in atto. E’ questo, a me sembra, l’unico modo per essere freudiani dopo i cento anni che sono passati.

Questa operazione ci chiama a lavorare su ciò che ho definito il  fulcro di tutta la ‘macchina’ psicoanalitica, a ripensare il processo attraverso cui si costituisce il soggetto tra i generi e le generazioni, a partire dalle trasformazioni – fattuali e simboliche – messe in scena dai padri e dalle madri contemporanee[2]. L’operazione di rilettura dell’Edipo apre orizzonti di comprensibilità in particolare riguardo all’identità sessuata: radicare il gender entro la storia edipica in base a quelle modalità di essere al mondo che caratterizzano quella madre e quel padre, così tipici della nostra modernità e così diversi dai genitori di Hans, ci permette di rendere comprensibili alcuni fenomeni che caratterizzano i figli contemporanei, maschi e femmine, in particolare in quell’età caratterizzata dallo svincolo edipico che è l’adolescenza.

Dare spazio teorico a una trasformazione che è in atto e che ha bisogno di essere formalizzata anche dalla psicoanalisi non è operazione di poco conto, richiede uno sforzo teorico notevole, ma a me sembra che questa sia la sfida da accettare. Non ho qui lo spazio per dilungarmi sul tema, ma rinvio a un lavoro a più voci da me curato sull’argomento specifico, dal titolo appunto di “Il complesso del piccolo Hans” (Casoni, 2010). Lì, appunto, si affronta il tema delle famiglie contemporanee di fronte ai figli adolescenti.

Tornando al nostro tema, a ciò che ho definito le gabbie del maschile/femminile, e facendolo calare entro il concetto di famiglia che noi presupponiamo, possiamo ipotizzare una via di fuga dagli stereotipi di genere attraverso un atto di ‘sovversione’ della logica binaria riguardo al tema edipico: secondo l’insegnamento che ci arriva dagli studi sul gender, dobbiamo sostituire alla connotazione aut/aut dei ruoli madre-padre la logica et/et. Non più e non soltanto la madre come oggetto del desiderio e il padre come soggetto della legge limitante (Edipo classico), ma due corpi che producono desideri e propongono leggi. Mettere a processo un campo di forze fatto di relazioni complesse tra contrapposizioni e differenze molteplici, non dedicare ai due attori (madre, padre) ruoli rigidi, pre-definiti, ma lasciare che i giochi si appalesino per quello che sono[3]. L’originaria bisessualità di cui ci ha parlato Freud deve essere fatta calare nel romanzo edipico che caratterizza tutti gli esseri umani, e ciò comporta il mettere sullo stesso piano – ma con le dovute differenze – i due corpi di madre e di padre. E dargli la stessa dignità, di corpi desiderati e desideranti, oltre che di portatori di leggi che regolino i desideri.

Troppo spesso, anche nella stanza d’analisi o nei luoghi della psicoterapia, continua a essere attiva la logica “binaria” dell’identità di genere, e tutto ciò che è stato affermato dai continuatori del post-Freud riguardo al gender non è messo a processo, non diviene – per usare il termine utilizzato da René Kaës – un garante metapsichico (Kaës et alii, 1993) in grado di attivare “un’altra storia” dell’Edipo contemporaneo.

Eppure i presupposti per trovare uno spazio teorico a ciò che possiamo definire l’originaria bisessualità dei ruoli genitoriali non è tema nuovo, ci è stato segnalato da Freud fin dalle origini, anche se sempre in margine, a latere. Un esempio ci viene proprio dal caso clinico che ha ‘originato’ il complesso di Edipo, ovvero il piccolo Hans. Ecco cosa scrive Freud, riferendo un dialogo tra Hans e il padre: “La mattina del 3 aprile viene a letto da me, mentre negli ultimi giorni non era mai venuto e anzi sembrava fiero di questa sua riservatezza. Gli chiedo: – Perché oggi sei venuto? Hans: – Quando non ho più paura non vengo più. Io: – Allora tu vieni da me perché hai paura? Hans: – Quando non sto con te, ho paura; quando non sto a letto con te, ho paura, ecco. Quando non avrò più paura, non vengo più. Io: – Allora tu mi vuoi bene, e la mattina presto a letto hai paura, e perciò vieni da me? Hans: – Si. Perché mi hai detto che io voglio bene alla mamma e che è per questo che ho paura, mentre invece io voglio bene a te?” (Freud, 1908, pag. 509-510).

Il piccolo Hans, da buon analizzante, aggiunge a ciò che il padre analista dice (“mi hai detto che io voglio bene alla mamma”, logica eterosessuale) la sua interpretazione aggiuntiva (“mentre invece io voglio bene a te?”, logica bisessuale), in un setting caldo, affettuoso, dentro lo stesso letto, senza temere il ‘corpo a corpo’ con il padre.

L’Edipo contemporaneo e gli adolescenti

Come si diceva più sopra, l’accelerazione delle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni all’interno delle famiglie, e in particolare nei ruoli genitoriali, sta modificando quelli che René Kaës ha definito i garanti metapsichici e metasociali. La trasmissione di questi garanti è mediata, nella gran parte, dall’interazione tra i genitori e i figli: è questa l’eredità in gioco, in particolare per ciò che riguarda i modelli di genere. I figli si organizzano mentalmente riguardo a cosa vuol dire essere maschio o femmina in base alla rappresentazione messa in scena dai genitori: anche questo è l’Edipo, nella sua modalità di svincolo. Tale funzione edipica diviene evidente quando quei figli sono chiamati a definirsi con una precisione ‘operativa’ rispetto al genere, ad operare nel mondo in quanto maschi o femmine: ovvero quando divengono adolescenti, quando la nostra cultura dedica loro il diritto – quasi il dovere… – di scegliere un amore fuori dalla famiglia, di conoscere la sessualità, di costruirsi un loro essere al mondo che includa la loro soggettività sessuata[4]. Tutto ciò accade in adolescenza.

In questo senso  gli adolescenti possiamo assumerli come segnalatori puntuali di ciò che è successo precedentemente con mamma e papà, come soggetti dichiaranti che ci descrivono – con straordinaria lucidità, inconsapevolezza e talvolta spietatezza – quelle trasformazioni avvenute nella nostra cultura, nella nostra famiglia, nella nostra mente.

Accade spesso che le coppie genitoriali entrino in crisi quando i figli divengono adolescenti, quando i figli rinviano ai genitori – magari attraverso un sintomo, come il panico, l’anoressia, la depressione… – l’immagine di disagio o fallimento di quella coppia. Gli adolescenti possono quindi essere considerati come vittime e contemporaneamente carnefici della famiglia che non riesce a dare senso alle trasformazioni accadute al suo interno e, spesso, sanno bene come punire i genitori dei loro disorientamenti e misconoscimenti riguardo all’essere maschio e femmina.

Diamo quindi voce agli adolescenti, ascoltiamo cosa raccontano di mamma e papà quando hanno l’opportunità di trovare un luogo e un tempo di ascolto, ovvero durante la seduta.

Gli adolescenti come descrivono il padre e la madre?

In una sintesi estrema mi verrebbe di rispondere a cortocircuito: la madre è normativa (c’è) e il padre è inconsistente (non c’è). La famiglia contemporanea, si diceva poco sopra, è figlio/a-madre. Il maschio-padre è evaporato. La madre, unica sopravvissuta, si trova nella scomoda positura di monarca assoluta, a rischio di risultare essa stessa rea della disfatta.

Il tema dell’assenza della funzione paterna è tanto antico quanto attuale, attualissimo[5]. Per ciò che riguarda le sue radici antiche basti pensare a Edipo, al mito che ha originato la riflessione psicoanalitica sui ruoli genitoriali: tutto nasce dal rifiuto di Laio nei confronti del figlio, dal suo rifiuto di essere genitore di un figlio maschio, dalla sua fuga vile da un ruolo di padre castrabile, ciò che lo ha portato ad abortire un figlio già nato.

Inoltre – fatto poco esplorato dagli psicoanalisti – Gindro ci ricorda che, nella trilogia sofoclea del ciclo tebano, il plot dell’Edipo Re evolve e si chiude nell’Edipo a Colono, dramma che si conclude con la miracolosa sparizione di Edipo sul monte sacro di Colono, tra segni divini come il fulmine, che lo stesso Gindro interpreta come ricongiungimento tra il figlio-Edipo e il padre-Zeus (Gindro, 1995). Ciò che sta a segnalarci, fin dalle origini mitologiche della nostra civiltà, il desiderio e l’attesa nei confronti della figura paterna.

Massimo Recalcati, in “Cosa resta del padre?” (2011), riprendendo ciò che gli è stato trasmesso da Jacques Lacan, ci indica la possibilità di  una terza via per ritrovare una funzione paterna. Al di là del bivio obbligato – tra rimpianto nostalgico e autoritario del Nome-del-Padre normativo e l’adesione frivola alla libertà di agire determinata dalla legge del godimento, senza regole se non quella del consumo di esperienze piacevoli –  è  dare la testimonianza del proprio desiderio. Non più la funzione ideale e universale del Nome-del-Padre, ma la testimonianza reale e individuale che vale la pena vivere: trasmettere in eredità ai figli il proprio desiderio, unico valore fondante che può dar senso alla vita.

Questo mandato, trasmettere il desiderio, mi verrebbe di aggiungere che non riguarda soltanto il maschio-padre, ma riguarda pienamente anche la femmina-madre: è il senso e il ruolo di chiunque voglia dare umanità a una vita in divenire, che sia maschio o femmina, padre o madre. L’obiettivo è comune, non è funzione determinata dal genere di appartenenza.

Ma io aggiungerei, di nuovo con Gindro, una caratterizzazione al ruolo paterno che è stata sottaciuta: dare testimonianza di genere, del proprio essere maschio, per far ritrovare al figlio e la figlia il corpo del padre – il “ventre” del padre dice Gindro (1985) – che può essere “genitore” anche se non gestativo, trovare la via per comunicare ai figli la sua carnalità – non incestuosa o incestuale[6] – attraverso la sua presenza affettiva e corporea. Ma ciò richiederebbe da parte del padre di avere una consapevolezza di sé e del proprio corpo non omofobica nei confronti del figlio maschio e non fallico-seduttoria nei confronti della figlia, bensì portatrice di dignità. La sua ‘testimonianza’ non può che essere affettiva, corporea, concreta. Sessuata, di genere.

L’eredità che il padre e la madre possono cedere ai figli riguarda quindi il desiderio, unico valore fondante, e questa eredità non può che declinarsi nel desiderio dei figli di essere femmine o maschi, nel poter trovare la loro strada a partire da quei due exempla humanitatis, da quella femmina e quel maschio che li hanno fatti venire al mondo, in base alla dignità di genere che gli è stata trasmessa.

Secondo questa prospettiva i due ruoli, di madre e di padre, perdono in parte le loro funzioni differenziate che la psicoanalisi da sempre gli ha dedicato – la madre “nutritiva-affettiva” e il padre “normativo” – per trovare uno spazio di senso comune: il desiderio del figlio e della figlia come obiettivo condiviso da coltivare. La ‘testimonianza’ non ha ruoli differenti ma caratterizzazioni riguardo al genere differenziato: devono avere e trasmettere la loro dignità di essere al mondo in quanto maschi o femmine.

Qualcuno potrebbe obiettare che così si produce uno scenario in cui le due soggettività maschile e femminile si confondono e generano confusione. Non vi è confusione tra i generi ma un progetto comune con caratterizzazioni differenti. La confusione riguardo alle soggettività sessuate si manifesta negli adolescenti quando la coppia genitoriale inganna i figli comunicandogli modalità di essere al mondo inquinate dagli stereotipi di genere: maschile = forte-attivo, femminile = debole-passivo. Loro sanno quanto ciò sia falso. Sono questi gli inganni che i figli adolescenti non perdonano ai genitori, che producono in loro disprezzo e disorientamento, oltre al desiderio di differenziarsi  – che spesso si traduce nella frase “io non sarò mai come loro” – e che, quando fallisce, produce sintomi e sofferenza.

Il conflitto tra i generi e la bisessualità

Il percorso che ho cercato di delineare giunge così al suo punto centrale: l’originaria bisessualità di cui ci ha parlato S. Freud va calata nel romanzo edipico che caratterizza tutti gli esseri umani. Soltanto così la psicoanalisi, trasformando un suo caposaldo teorico, può trovare la via per ritrovare la vitalità perduta. Soltanto mettendo mano nello spazio-tempo dell’Edipo – primo tempo della soggettività – è possibile declinare una nuova narrazione dei soggetti, e dei soggetti sessuati in particolare, che sia in grado di interpretare e comprendere le nuove fenomenologie che ci vengono presentate da questa nostra modernità – post-modernità, iper-modernità… – e che mettono spesso in difficoltà gli strumenti interpretativi della psicoanalisi.

Affrontare questo tema non è certo facile, ma a me pare di fondamentale importanza, non solo per comprendere e trattare clinicamente i disagi e le psicopatologie che ne sono connessi, ma anche per avere uno sguardo più ampio di fronte ad alcune emergenze sociali della nostra contemporaneità – come a esempio il bullismo, la xenofobia, il razzismo, il sessismo, il cosiddetto femminicidio: ovvero le varie forme distorte della percezione dell’altro – che appestano la nostra vita quotidiana e che hanno sempre una determinante di ordine sessuale.

La psicoanalisi – a partire da Sigmund Freud – ci insegna che tutte le reazioni fobiche nascono da una sorgente interna all’individuo, da un perturbante (Freud, 1919): ciò che ci spaventa dell’altro, sia esso il colore della pelle, la cultura, la sessualità, il ceto sociale, la disabilità, l’odore, i gesti, è qualcosa che rimanda a noi stessi, a qualcosa che ci appartiene o ci è vicino e che neghiamo.  Il termine tedesco unheimlich (perturbante) dal punto di vista semantico è il contrario di heimlich (da heim, casa) che significa tranquillo, confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa. Un-heimlich significa quindi inconsueto, estraneo, non familiare. Per avere una reazione fobica, di eccedenza emotiva, di violenza, c’è bisogno che l’oggetto esterno a noi faccia entrare in vibrazione degli oggetti interni, qualcosa che ci è familiare ma che sia misconosciuto, inconscio. Attraverso un processo di identificazione-proiezione ci sentiamo invasi dall’altro che fa entrare in vibrazione delle nostre corde che vorremmo non avere.

L’omosessualità, come è ben noto, è uno dei ‘luoghi’ prioritari della reazione xenofobica[7]. E questo ci sembra assolutamente comprensibile, visto che la sessualità – e l’omosessualità in particolare — è un fulcro dell’identità soggettiva, e che essa è per definizione polimorfa, incontrollata e incontrollabile. Molto spesso le caratteristiche del bullo, xenofobo, razzista, sessista, uxoricida hanno la loro origine in una identità di genere perversa, tanto rigida quanto precaria. Ma questo che sto dicendo è scontato, ovvio, acquisito.

Su un punto vorrei però fermare l’attenzione, che si ricollega al nostro tema: normalmente, quando ci si occupa di diversità e in particolare di reazioni xenofobiche, ci si dimentica del messaggio freudiano contenuto nel concetto di perturbante. Non si va a cercare ciò che lo xenofobo condivide con l’oggetto fobogeno e che produce per identificazione-proiezione la reazione violenta di rigetto, ma si invita all’accettazione della diversità altrui, all’accoglimento appunto del diverso, di chi è non-io. Si fa ricorso al principio della tolleranza rispetto allo strano, straniero, estraneo. E’ così che si fallisce con l’operazione di educazione, di civiltà e di pedagogia, non andando alla sostanza della questione. Bisogna invece educare alla propria diversità, non a quella altrui.

Ebbene, tornando al nostro triangolo edipico, possiamo identificare lì un luogo primigenio della reazione xenofobica, in quanto la narrazione che è stata proposta e imposta dalla cultura di quel luogo – e dalla psicoanalisi in particolare – ha negato l’aspetto perturbante dell’altro, dell’altro genere come interno e non esterno al soggetto. E’ lì che la struttura aut/aut del paradigma di genere è divenuta la causa di una condizione patogena universale, produttrice di sofferenza e patologie. E’ lì che trovano le loro radici quei comportamenti aberranti che chiamiamo bullismo, xenofobia, razzismo, sessismo, femminicidio.

In sintesi: digerire la propria omosessualità da parte dei padri e delle madri significa mettere sullo stesso piano i due corpi di femmina e di maschio e dargli la stessa dignità, di corpi desiderati e desideranti, oltre che di soggetti portatori di leggi che regolino i desideri. E’ soltanto così che si può originare un riconoscimento dell’altro genere non distruttivo, accogliente dell’alterità: soltanto così si possono generare dei figli non xenofobi.

Tornando alla disputa sull’Olimpo tra Zeus ed Era — e quindi all’invidia-gelosia per il godimento dell’altro, ciò che rischia di ‘accecare’ gli psicoanalisti oltre a Tiresia – avanzo un’ipotesi tanto semplice quanto ovvia, ma che a me sembra uno dei nuclei fondamentali della sofferenza di genere.

La soluzione del conflitto tra maschi e femmine (conflitto eterosessuale) passa attraverso la risoluzione della fobia omosessuale. Potersi pensare altro dall’identità eterosessuale (dover essere, la logica dell’aut/aut) apre lo spazio mentale per accogliere l’altro genere, per andare oltre l’invidia distruttiva.

Con apparente paradosso l’accesso all’eterosessualità pacificata è mediata dall’accettazione della propria omosessualità.

Ciò che affermo non è certo nuovo, anzi, Sigmund Freud lo ha affermato più di cento anni fa scrivendo “quando un uomo e una donna fanno l’amore si è sempre in quattro”[8]. I due fantasmi omosessuali, per il maschio e la femmina, se denegati ingombrano la scena d’amore, la occupano e la negano. Se ognuno della coppia accoglie la sua doppia attrazione si libera lo spazio dell’incontro.

Invertire l’invidia

Sul muro del palazzo dove risiede il mio istituto, e dove lavoro quotidianamente da più di venti anni, c’è una frase – scritta da chissà chi, penso a un adolescente bislacco o un writer geniale – che inevitabilmente carpisce la mia attenzione ogni volta che gli passo davanti: “tu sei invidioso di te stesso”. Ancora oggi continua a turbarmi, a farmi girare la testa, so che ha un senso ma non so trovarlo. L’invidia, per esistere, ha bisogno di un altro soggetto da invidiare. Ma forse se rivolteremo la nostra invidia verso noi stessi, diventeremo più saggi e meno invidiosi. Se invidieremo noi stessi l’invidia sparirà. O, perlomeno, sarà più gestibile.

Questo è il senso che voglio dare oggi a quella frase misteriosa, e che mi viene utile in finale di questo percorso: bisogna invertire l’invidia.

A questo proposito, mi accorgo che, lungo la progressione degli argomenti che ho tentato di toccare fino a ora, ho fatto spesso riferimento all’omosessualità come assunzione delle caratteristiche dell’altro genere. L’omosessualità viene omologata a ‘inversione sessuale’. Tiresia, appunto, fu reso femmina e fece l’amore con i maschi. Freud ci dice che “si è sempre in quattro”, ma comunque o maschio o femmina, rispettando gli stereotipi, o attivo o passivo. Si potrebbe pensare che ciò è una trappola della logica aut/aut: se tu maschio fai l’amore con i maschi devi diventare femmina e viceversa, ma sempre rispettando la scansione eterosessuale. In qualche modo la logica sottesa a questa operazione mentale ci fa pensare a una negazione dell’omosessualità: si deve eterosessualizzare fantasmaticamente l’incontro tra due corpi di femmine o di maschi. Lo stereotipo di genere diviene stereotipo di eterosessualità, nonostante i due corpi appartengano allo stesso sesso. D’altro canto non ci possiamo liberare degli stereotipi che abitano le nostre menti tanto facilmente, è un lavoro lungo e forse interminabile, e non riguarda soltanto gli eterosessuali: anche gli omosessuali praticanti possono essere omofobi, o, come si diceva nelle varie versioni del DSM, egodistonici[9]. Sembrerebbe quindi non pensabile per la nostra cultura una omosessualità che non sia inversione sessuale.

E’ di una frequenza straordinaria, quasi assoluta, la confusione-sostituzione-sovrapposizione dei termini inversione sessuale-omosessualità nella nostra cultura, e in particolare da parte degli psicoanalisti. Ma questo non ci stupisce. La pensabilità di una soggettività anche omosessuale – meglio dire bisessuale, come ci ricorda Freud – è qualcosa che è forse esistita ad Atene nel quinto secolo avanti Cristo, ma che da secoli è assente nel nostro apparato culturale. E forse lo rimarrà ancora per molto tempo.

A conclusione di questo percorso non voglio sottrarmi di fronte a una derivazione che può assomigliare a un luogo buio: il filo dei ragionamenti finora seguito ci espone a una possibile conclusione che potrebbe essere letta come una deriva polically uncorrect.

Spesso il soggetto omosessuale nei suoi gesti e nei suoi atteggiamenti si identifica con l’altro genere, fino a divenirne una caricatura estrema: è questa una forma di omofobia mascherata? L’inversione sessuale è un meccanismo di difesa dall’omosessualità psichica? Salva l’apparenza dell’eterosessualità? E’ un artefatto?

Questo tema apre un nucleo di riflessione etico oltre che scientifico enorme. L’inversione sessuale – non l’omosessualità – è una perversione nel senso antico, un arresto di sviluppo, in quanto un diniego dell’omosessualità? Transessualismo, transgenderismo, travestitismo e inversione sessuale sono fenomenologie dell’invidia del corpo dell’altro, delle sue libertà? Segnalano una impossibilità di rappresentarsi come omosessuali? Testimoniano il bisogno di sentirsi fuori dal proprio corpo, nel corpo dell’altro/altra?

Lascio aperta l’interrogazione. So comunque che la psicoanalisi, in quanto salvifico esercizio del sospetto, non può mettere fuori analizzabilità una qualche condizione esistenziale, in particolare riguardo all’orientamento sessuale. Siamo tutti analizzabili, e “gli esami non finiscono mai”.

Dico ciò nel rispetto di ogni scelta individuale che non danneggi o stigmatizzi alcuno. Con Kant mi muovo secondo il principio che la mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro.

Nella mia pratica clinica mi è sufficiente sapere che esistono soggetti che hanno caratteristiche sessuate, e che il desiderio si dirige inevitabilmente e indifferentemente verso un altro corpo, verso un altro soggetto. Vorrei non avere il bisogno di dedicare delle caratteristiche di genere a quel soggetto, so che se lo facessi scadrei nello stereotipo di maschio e di femmina dai quali ci dobbiamo liberare. Eppure so che della gabbia degli stereotipi non ci si può liberare completamente.

 

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[1]  Sandro Gindro parlava di Inconscio Sociale, come spazio mentale collettivo in continua trasformazione dinamica, entro il quale si costituisce l’inconscio individuale, dando grande attenzione agli effetti sul funzionamento psichico individuale degli eventi socio-culturali. Cfr. Gindro S., L’oro della psicoanalisi, A. Guida, Roma 1993
[2] E’ di fondamentale importanza il lavoro di rielaborazione prodotto da Jacques Lacan riguardo all’Edipo. Nella riformulazione concettuale che propone alla fine degli anni ’50, a proposito della nuova legge che governa i legami collettivi, si afferma il “discorso del capitalista” come nuovo schema del Super-Io sociale nell’epoca del trionfo del consumismo assurto a legge di funzionamento della società. Cfr. Lacan J., “Del discorso psicoanalitico”, in: G. Contri, Lacan in Italia, La Salamandra 1978. Cfr. anche: S. Zizek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri 2009
[3] Un rischio implicito in questa operazione è quello di produrre, invece di soggettività altre, delle caricature di madri ‘patriarcali’ e di padri ‘mammi’. Ma ciò sarebbe l’effetto di un falso svincolo dagli stereotipi, bensì l’inversione di maschere incartapecorite.
[4] La condizione adolescenziale, più che essere una trasformazione del funzionamento intrapsichico, è determinata dal mandato sociale che la società e la cultura gli dedicano, in particolare riguardo all’identità sessuata. Cfr. Bracalenti R., a cura di, Adolescenza. Gli anni difficili, A. Guida 1993.
[5] Cfr. ad esempio per ciò che riguarda il panorama italiano: Zoia L., Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2003;  Recalcati M.,  Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, R. Cortina, Milano 2011;  Recalcati M., Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano 2013.
[6] L’incestuale è un neologismo formulato da Racamier per descrivere una specifica condizione della vita psichica e relazionale dove l’incesto, non agito, aleggia nell’atmosfera emotiva di un gruppo sociale, quando la vita psichica individuale e familiare porta l’impronta dell’incesto non fantasmato.”L’incestuale è un clima in cui soffia il vento dell’incesto senza che vi sia incesto. Ovunque arrivino le sue raffiche, si crea il deserto, s’istilla il sospetto, il silenzio ed il segreto” . Racamier P. C. Incesto ed incestuale. Franco Angeli, 2003
[7] Cfr. ad esempio, Gindro S., (ed.), La xenofobia. Fratelli da odiare?, A. Guida, Napoli 1993
[8] Non ricordo dove Freud ha scritto questa frase così famosa e citata così spesso. Ho chiesto aiuto anche ad amici e colleghi che hanno una straordinaria conoscenza degli scritti di Freud, ma nessuno – pur ricordandola e riconoscendola – si ricorda dove sia citata. A voi l’interpretazione dell’atto mancato…
[9] Nel DSM-5, a differenza delle versioni precedenti fino al DSM-3, non si parla più di egodistonia riguardo all’orientamento omosessuale, né di Disturbo dell’identità di genere, come era nel DSM-4, ma di Disforia di genere, senza l’esplicito riferimento all’omosessualità. Cfr. American Psychiatric Association, DSM-5, Raffaello Cortina, Milano 2014.